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“Cara Valeria”

Piergiorgio Cattani, Cara Valeria. Lettere sulla fede. Trento, Il Margine, 2008, pp. 224, 14.

Conosco Piergiorgio da alcuni anni. Lo dico subito perché non riuscirei a parlare del suo libro senza parlare di lui. E in realtà nemmeno mi andrebbe di provarci, fingendo una recensione "terza" quando invece sono di parte. In fin dei conti è il genere stesso degli epistolari, dei carteggi, che quasi richiede una lettura diversa, più partecipata e meno "di studio". Perché attraverso le lettere è possibile oltrepassare il giudizio sul libro e spingersi fino a guardarne da vicino e l’autore, in un certo senso giudicandolo, e con lui le sue idee e le sue convinzioni, ma anche le sue debolezze e le sue paure.

Con "Cara Valeria – Lettere sulla fede"Piergiorgio ha deciso di correre questo rischio, mettendo chiaramente in gioco la sua cultura, la sua preparazione teorica e le sue letture, ma prestandosi allo stesso tempo ad essere giudicato lui stesso, come persona. No so dire se questa sia stata una scelta accettata con fatica, o invece una necessità che Piergiorgio sentiva, certamente però è una scelta consapevole della quale gli va dato atto e anche, io credo, il merito.

Sono ventiquattro le lettere attraverso le quali Piergiorgio si mostra: la scrittura è piana, le frasi brevi. La prima sorpresa sono i dubbi, e mi perdonerà Piergiorgio se parlo di sorpresa, ma l’abitudine ad ascoltarlo parlare mi aveva abituato altrimenti. La sua fatica nel pronunciare le parole l’ha probabilmente educato ad asciugare le frasi, spingendolo ad affermare solo lo stretto indispensabile. Questo, ai miei occhi, aveva alle volte fatto apparire i suoi giudizi come eccessivamente duri, quasi trancianti, e lui troppo deciso, sicuro. Mi sembrava potesse essere una persona più incline all’affermazione che alla proposta, alla dichiarazione piuttosto che al parere, alla certezza, appunto, in luogo del dubbio. Non è così, e le sue lettere lo svelano fin dalle prime frasi: "Insegna alla tua lingua a dire ‘non so’" confida Piergiorgio a Valeria – e a noi – attraverso Socrate, perché "le tue certezze, ma soprattutto le tue perplessità, mi stanno aiutando, credimi, nel mettere in discussione la mia fede, nel non dare per acquisito proprio niente. Sulla strada di Dio, infatti, non ci si può mai fermare."

Le lettere raccolte nel libro svelano che Piergiorgio "fermo" lo è stato certamente poco, e anzi sulla "strada di Dio" ha camminato a lungo, interrogandosi e cercando. I suoi ragionamenti, ancorché espressi in modo semplice, sono spesso alti e sottili, e forse per questo non sempre immediati per quelli di noi che Moltmann e Levinas li hanno incontrati poco e solo di striscio. La scarsa familiarità con certi concetti o, semplicemente, con questo livello di riflessione su di sé e sulle cose, non sono però un ostacolo grave. Piergiorgio aiuta e accompagna il lettore con esempi di vita e con i suoi ricordi, rendendo maneggevoli anche molti concetti insidiosi. Non nascondo però di aver sentito alle volte la voglia di poter leggere anche Valeria, che "sulla strada di Dio" immaginiamo in ritardo, più vicina a noi, per rispecchiarci nei suoi dubbi semplici e nelle sue paure. Ma di questo leggero rimpianto non possiamo certo incolpare Piergiorgio, o almeno non possiamo farlo più di quanto incolperemmo Rilke per il nostro saper così poco del "giovane poeta", o Kafka per non averci detto di più di Felice.

Così, con i ragionamenti sulla differenza tra fede e religione ogni lettore si confronterà al livello che può e che gli appartiene, per gli incontri, gli studi, e le esperienze che ha fatto. E lo stesso vale per le pagine riguardanti l’amore, la morte e la vita. Proprio le parole spese su quest’ultima, sulla fiducia nella vita e sulla sua bellezza – una vita che Piergiorgio dimostra di esperire respiro dopo respiro –, sono forse le più importanti, quelle che raccontano e restituiscono la maggior fiducia. Perché in fin dei conti è proprio la fiducia che ci permette di agire e di guardare avanti. Lo svela anche, purtroppo in negativo, Carlo Michelstaedter – che alla vita sfuggì con un colpo di rivoltella a soli ventitré anni – scrivendo all’amico Rico: "Mentre tu in questo tempo hai agito così da vincer l’inerzia nemica delle cose, io sono ancor sempre così come m’hai lasciato diverso da me stesso. Così per quanto ho sentito di te e più desidero sentire, meno mi sento voce a parlarti."

Chiudo con un disaccordo, o meglio, una distanza: la distanza con il Piergiorgio che afferma, parlando di resurrezione: "Se il destino del corpo fosse la decomposizione, che senso avrebbe vivere?" E’ questa una frase che sento lontana, ma sulla quale tuttavia le lettere di "Cara Valeria" fanno venire la voglia di confrontarsi con Piergiorgio, a me che lo conosco e credo anche a voi, che leggendo il suo libro lo conoscerete.