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QT n. 11, 31 maggio 2008 Cover story

Le nostre paure. E le loro

Dopo la vittoria leghista e i primi provvedimenti del governo, le reazioni e i sentimenti degli immigrati. Paura, insicurezza, rassegnazione. Rabbia no. Almeno per ora.

Antonio Rapanà

Il binomio insicurezza-immigrazione è stato indubbiamente uno dei temi decisivi del risultato della recente vicenda elettorale e continua a giocare un ruolo centrale nell’orientare il dibattito politico, le scelte del governo nazionale e locale, gli umori e gli atteggiamenti di parti consistenti della comunità.

Le immagini di queste pagine sono state colte durante la “Festa dei popoli” svoltasi a Trento domenica 25 maggio (Foto Marco Parisi).

L’inquietudine per l’insicurezza sociale ed urbana trova un facile capro espiatorio negli immigrati, vissuti indistintamente come un’orda minacciosa per le comunità locali. E serve poco opporre qualche argomento razionale a questo senso comune impaurito ed irrigidito: ad esempio, che quest’orda è composta in realtà da una schiacciante maggioranza di lavoratori stranieri di cui tutti, ormai, riconoscono l’insostituibilità per lo sviluppo dell’intera comunità trentina; o ancora che, dati alla mano, non c’è rapporto diretto tra andamento dei reati e crescita dell’allarme sociale, perché i sentimenti di insicurezza sono cresciuti in un periodo che ha registrato una costante diminuzione dei fenomeni di devianza: ovunque, in Italia come in Trentino. E che, infine, le statistiche dei centri studi e dello stesso Ministero dell’Interno provano che i cittadini stranieri regolari delinquono meno dei cittadini italiani.

Certo, non deve essere sottovalutato il sacrosanto bisogno di sicurezza della popolazione, che costituisce la condizione fondamentale per una vita serena e dignitosa, soprattutto per chi oggi vive situazioni sociali di disagio, bisogno che ha molte e complesse ragioni. Ma per realizzare l’obiettivo strategico della "città sicura" sarebbero necessarie analisi rigorose e politiche competenti ed articolate, per le quali pare non esserci spazio. Prevale, invece, un clima incattivito di allarme sociale, che nei confronti delle persone straniere in quanto tali tende istericamente a parlare solo il linguaggio dell’esclusione, dell’espulsione, della repressione.

Si promuovono raccolte di firme e cortei per negare il diritto costituzionale a praticare il proprio culto, si invoca il controllo militare del territorio, si inquadrano i militanti dell’intolleranza e della vera insicurezza nelle "ronde padane", si organizzano criminali spedizioni contro rom e stranieri, si propongono disegni di legge di dubbia costituzionalità ispirati dal principio "galera ed espulsioni di massa". In un contesto diverso, in Trentino, poi, sempre in nome di questi sentimenti popolari, la giunta provinciale ha deciso di rendere ancora più difficile l’accesso dei cittadini stranieri agli alloggi Itea e al contributo di integrazione, già limitati dall’esistenza di una specifica graduatoria separata e dal requisito della residenza triennale.

Contro un nemico che non c’è si mettono in campo culture e misure che non aumenteranno la capacità dello Stato di punire i comportamenti illegali, ma che sicuramente inaspriscono l’ostilità contro tutti i cittadini stranieri, alimentando il rischio di una convivenza interetnica caotica, separata e conflittuale.

Intanto questo clima di intolleranza e di ostilità suscita inquietudini e paure nelle persone immigrate, che sentono umiliate le loro fatiche ed aspirazioni ad appartenere con dignità e pienezza alla comunità dei cittadini.

Sul clima di intolleranza e sulle difficili prospettive della convivenza interculturale in Italia e in Trentino abbiamo ritenuto importante ascoltare le emozioni e le riflessioni di donne e di uomini dell’immigrazione che vivono nella nostra comunità.

Con parole dignitose e prive di toni vittimistici esprime la sua amarezza Z., cittadina serba, in Italia da nove anni, con marito e due figli ormai grandi: "Sono delusa, arrabbiata da morire: non mi sono mai sentita straniera come in questo periodo. In questi anni ho lavorato duro e ho subito di tutto: la mia famiglia è fuggita in Italia perché la guerra ed i conflitti etnici avevano distrutto ogni speranza. Abbiamo vissuto per sei anni a Caserta in condizioni disumane: avevamo il permesso di soggiorno, ma abbiamo sempre lavorato in nero. Qualche mese in una pasticceria, 14 ore al giorno per 150.000 lire alla settimana. Sfruttati ed umiliati, piangevo tutto il giorno, ma lottavamo per sopravvivere, per la nostra famiglia…. E poi altri anni di lavoro sempre in nero in agricoltura, a zappare. Non era certo il mio lavoro, ma non ho mai ceduto, non potevo per i miei figli, per la famiglia. Poi siamo venuti in Trentino, dove già vivevano dei nostri connazionali: qui la situazione, quella economica almeno, è migliorata".

Nel racconto di Z. rivivo la storia faticosa dei tanti cittadini stranieri che ho conosciuto in questi anni. Hanno lasciato i loro paesi spinti da ingiustizie e povertà provocate dall’inasprirsi degli squilibri economici internazionali, dalla dissoluzione di sistemi politici ed economici, dalla violenza terribile delle pulizie etniche e delle guerre "umanitarie", dalla repressione di regimi dittatoriali. Sopportano il dolore delle separazioni e le fatiche, non solo materiali, di un inserimento sempre ad ostacoli nella speranza di costruire nel loro nuovo Paese una vita serena, fatta di benessere materiale, certo, ma anche di dignità, di libertà, di democrazia. Ma della durezza dell’immigrazione, che pure hanno a lungo sperimentato, gli italiani si sono completamente dimenticati.

"Non dovrebbe essere difficile - continua Z. - capire cosa significa per una persona emigrare. Prima della guerra vivevamo bene nel nostro Paese: io gestivo tre negozi, mio marito era ingegnere meccanico. Ora lavoriamo tutti e due per un’impresa di pulizie: non è il massimo, ma ci consente di vivere, con molti sacrifici ma dignitosamente, anche perché ora lavorano anche i nostri figli. Certo pesa sempre la sensazione che lasciando il tuo Paese vieni quasi negato come persona che alle spalle ha una storia, una cultura, delle capacità, quasi che il tuo cammino ricominci da zero, dal momento in cui inizia la tua vita di straniero immigrato. Ti senti svalutato come persona, imprigionato in una categoria, quella dell’immigrato, buono solo per i lavori più umili, quelli che gli italiani non vogliono fare, come si dice sempre".

Non meritiamo di subire questo odio", commenta Miriam, cittadina ecuadoregna che vive in Italia con il marito da sette anni: nel suo Paese era insegnante di lingua inglese e collaborava anche con l’università, mentre qui lavora in una ditta di pulizie. "Tanto lavoro e pochi diritti: cantieri, cave, ristoranti e alberghi, pulizie, raccolta delle mele, piccole fabbriche, assistenza agli anziani … cosa accadrebbe dell’Italia e del Trentino, se non ci fosse il lavoro a poco prezzo degli stranieri? Ci sentiamo sopportati solo se serviamo, invisibili e senza diritti".

Miriam racconta le sue amarezze tutte d’un fiato: "Viviamo la nostra vita in una continua incertezza, ogni problema diventa un ostacolo tremendo. Per trovare una casa in affitto devi fare centinaia di telefonate, ti illudi di averla finalmente trovata, ma appena dici che sei straniero la casa è già stata affittata… Se poi hai la fortuna di trovarne una, devi pagare comunque un affitto più caro. E proprio a noi, a noi che facciamo lavori più umili e guadagnamo salari più bassi, riducono la possibilità di ottenere un alloggio Itea o l’integrazione al canone... una decisione assurda, ingiusta! E come non bastasse, ti senti addosso queste campagne di intolleranza e di odio. Puoi avere una grande cultura e cento lauree, essere una persona di assoluta onestà e di grande valore morale, ma per tanta gente sei soprattutto uno straniero, la causa di ogni disordine e di ogni degrado".

E’ amara la conclusione di Miriam: "Paghiamo cara la speranza di costruirci qui un futuro migliore: oggi ho paura e vedo più incerto il mio futuro".

Non sono diverse le considerazioni di Z.: "Trovo irragionevole ed insopportabile di essere messa, solo perché sono straniera, nello stesso sacco di chi ruba, sfrutta le donne o commette qualunque altra cosa brutta: questo mi uccide psicologicamente. Io vorrei solo che la gente mi considerasse e mi giudicasse per la persona che sono… Per chi commette crimini, italiano o straniero, ci sono le leggi, c’è lo Stato, o almeno ci dovrebbero essere, perché mi sembra che proprio questo Stato sia incapace di combattere la criminalità piccola e grande e di garantire la certezza delle pene, altro che gli stranieri! Ora in questo clima di intolleranza sono io che ho paura, e più paura ancora se penso al futuro, che vedo persino peggiore del presente… Cerco di non trasmettere questa mia negatività ai figli: cerco di proteggerli e spero di cuore che questa tensione non li tocchi. Ma ho paura: ho già vissuto nel mio Paese il dramma dell’intolleranza, temo che non sia soltanto un brutto periodo".

Già, il futuro: ne parlo con Adnan, Soleman e Saif, tre giovani amici pakistani, in un certo senso espressione della seconda generazione dell’immigrazione: tutti intorno ai vent’anni - qualche anno più, qualche anno meno - non sono nati in Italia, ma hanno vissuto in Trentino tutti gli anni della loro formazione. Parlano un italiano scorrevole e costruito con sicurezza, hanno modelli di comportamento italiani, frequentano soprattutto ragazzi italiani. "Pensiamo in italiano e in pakistano, perché la propria cultura non si può dimenticare", come mi dicono quasi ad una sola voce.Le loro personalità stanno maturando attraverso un complesso processo di acculturazione selettiva, assumendo modelli culturali del nuovo Paese e conservando, tuttavia, anche tratti dell’identità originaria, ma rielaborati ed adattati al nuovo contesto. Dalle loro parole emergono le fatiche di un percorso certamente difficile, ancora incompleto ed incerto: la separazione traumatica dalle loro comunità, le difficoltà dell’inserimento in Trentino, le immancabili umiliazioni, la fatica di rielaborare le loro identità nella sospensione conflittuale tra due culture, quella del Trentino in cui sono cresciuti e quella di origine, sempre viva nelle loro famiglie. Spesso il discorso insiste sul desiderio di essere riconosciuti nella loro individualità, come spiega Adnan: "Io voglio essere solo Adnan, non uno straniero. Ricordo ancora con amarezza un mio professore che si rivolgeva a me, chiamandomi straniero…ci soffrivo terribilmente, mi sentivo umiliato: perché il nome è importante, una persona è anche il suo nome".

Intantodel presente si dichiarano abbastanza soddisfatti, anche se, come avverte Soleman, "in giro c’è una brutta aria: me ne accorgo da come mi guardano e mi parlano le persone con cui ho a che fare. Se a guardarmi con sospetto è la commessa, non mi importa più di tanto, perché è il fastidio di un attimo; se invece qualche parola brutta esce dal gruppo di ragazzi che mi trovo a frequentare, beh, allora ci sto male davvero".

Di questa brutta ariaSaif accusa i partiti che cercano voti sulla pelle degli immigrati e l’atteggiamento dei mezzi di comunicazione: "Se un pakistano, o uno straniero di qualche altra comunità, commette un reato, leggi sul giornale o senti in televisione che un pakistano ha rubato o ucciso o ha fatto altre cose brutte. Così si dà l’impressione che quel reato l’abbia commesso non un individuo criminale, ma i pakistani, e che questo sia nella loro natura o nella loro cultura, e siccome i pakistani sono stranieri, è come se l’avessero commesso tutti gli stranieri. Ed io tra loro. Questo non accade se il reato è commesso da un italiano: lui è il colpevole, la sua comunità non c’entra".

Sulla paura nei confronti dello straniero Adnan interviene con durezza: "Ma di cosa hanno paura gli italiani? Le cose di cui aver paura sono i lavori umili che noi facciamo perché a loro non piacciono più, il lavoro nero cui spesso siamo costretti, gli infortuni che subiamo, i soldi pagati per avere un permesso di soggiorno che non arriva mai, le condizioni indecenti delle case, spesso anche senza abitabilità, per le quali paghiamo affitti che nessun italiano pagherebbe mai! ".

Delle fatiche degli immigrati i ragazzi parlano con rispetto e con gratitudine, perché "per offrirci una vita ed un futuro migliori, i nostri padri hanno fatto sacrifici tremendi", ma nel loro futurovedono cose diverse dai lavori "da straniero" che gli italiani non vogliono fare. "Io voglio che il futuro della mia vita sia come quando ora gioco a calcio con i miei amici. - precisa Soleman - Sul campo mi gioco le mie possibilità come tutti gli altri e vengo giudicato per quello che faccio: così deve essere anche nel mio futuro". Adnan e Saif confermano concetti simili. Di sicuro con gli stranieri della seconda generazione non funzionerà il modello dell’inclusione subordinata, quello, per intenderci, che considera gli straneri solo come braccia, ma non persone. Questa condizione è stata subita dai loro padri perché lavori dequalificati, bassi salari, discriminazione sociale erano considerati avendo come riferimento le situazioni economiche e sociali del Paese di provenienza. Ma l’esperienza dimostra che così non sarà per i giovani che qui sono cresciuti, maturando i modelli di cultura e le aspettative dei loro coetanei italiani. Di questo sarà bene che le istituzioni tengano seriamente conto.

Amarezza per il clima di ostilità, ma anche la ferma volontà di non cedere alle delusioni avverto nelle parole di Altin e di Naim, che incontro a Pergine nella sede del Centro culturale Forum Alb Trentino, che raccoglie gli albanesi di diversi Stati: il Forum è una delle rare realtà significative del debole panorama dell’associazionismo immigrato in Trentino. Altin, albanese, ha 25 anni, vive qui da sei, è studente universitario, ma lavora anche nel negozio del padre, ed è presidente del centro culturale; Naim, 36 anni, albanese di Macedonia, vive in Italia dal ’93, lavora nel settore del porfido e del Forum è il segretario.

"Sentiamo parole e vediamo immagini cattive, che mettono davvero paura. - argomenta pacato Altin - La durezza delle proposte del governo complica pesantemente le situazioni, perché alimenta la sensazione che dai cittadini stranieri ci si debba solo difendere. Io non nego la complessità dei problemi e certamente bisogna affrontare anche la questione delle paure che molti italiani hanno verso gli stranieri. Ma non è negando alle persone straniere i diritti fondamentali, a partire da quello di culto, o la possibilità di esprimere e fare cultura, che si risolvono i problemi. Questa politica non serve agli italiani e non serve agli stranieri, che finiscono con il sentirsi più estranei".

La conversazione insiste molto sulle prospettive della convivenza: "Io mi sento cittadino di questa comunità, mi sento perginese, ma quando intorno a me vivo un clima di diffidenza, beh, allora ritorno a sentirmi uno straniero. - sottolinea Naim - In ogni caso qui voglio costruire il futuro mio e dei miei figli, che nemmeno sanno cosa significhi la parola straniero; per questo cerco di vivere pienamente dentro la comunità di Pergine, interessandomi ai problemi e partecipando alle iniziative culturali che si organizzano in paese".

Promuovere partecipazione, organizzare momenti di incontro, costruire passo dopo passo relazioni di convivenza rappresentano la costante ragione dell’associazione: "Noi sappiamo bene quanto la vita sia dura per tutti, ma i cittadini stranieri hanno qualche problema in più. Basta pensare che il permesso di soggiorno è legato al contratto di lavoro: se perdi il lavoro e non ne trovi un altro entro sei mesi, il permesso non viene rinnovato e crolla tutto, per te e per la tua famiglia, anche se sei in Italia da una vita. Questa paura la stanno vivendo in questo periodo molti lavoratori del porfido. Per gli stranieri non è facile partecipare alla vita di tutti, perché i problemi ti schiacciano e spesso ci si chiude dentro. Ma noi insistiamo sempre perché i nostri associati si prendano la responsabilità di partecipare alle attività del nostro centro, come pure alla vita delle scuole e alle iniziative che si organizzano nei paesi della zona" - concordano Altin e Naim. "L’integrazione non cade dal cielo, la dobbiamo costruire tutti insieme. Non ci sono alternative: piaccia o no, il nostro futuro non può essere altro che costruire convivenza tra italiani, che devono accettare gli stranieri come cittadini, e stranieri, che devono essere fino in fondo cittadini delle comunità locali. E questo non solo nell’interesse degli immigrati, ma nell’interesse di tutti".

Con intelligenza ed equilibrio Altin e Naim esprimono consapevolezza dei problemi, ma disegnano anche una prospettiva per uscire progressivamente dall’isteria delle paure e per costruire una convivenza rispettosa della dignità di tutti: riconoscimento dei diritti di cittadinanza, partecipazione responsabile, promozione di spazi ed occasioni di scambio culturale, esperienze di relazioni positive.

Questo è l’orientamento che finalmente anche i responsabili delle politiche per l’integrazione e la convivenza dovrebbero praticare con più consapevolezza ed incisività in Trentino.