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Hitler und die Deutschen

Viaggio in Germania per una mostra sul nazismo

“Datemi 4 anni di tempo” Manifesto del 1937

La Germania è riposante. Da Bolzano a Torino in treno e di lì a Malpensa è uno stress. Poi, atterrata a Schönefeld, tutto è semplice. Niente suk, uno sportello ben visibile, si compera il biglietto per i trasporti compresi i transiti per i due aeroporti. Venti minuti e si è in centro. In aereo mi avevano colpito due righe dell’ultimo libro di Nadia Urbinati che hanno a che fare sia con la situazione politica italiana sia con la mostra che vado a vedere a Berlino: “Le democrazie post-totalitarie hanno...bisogno di recuperare la forza etica della dignità della persona e della partecipazione ragionata alla vita politica per difendersi dalle tentazioni comunitarie intolleranti”. Compro lo Spiegel, e per ambientarmi leggo l’inchiesta di copertina (13 pagine) sulle quote femminili nei consigli d’amministrazione delle imprese. La sorpresa è sentire che i capi delle maggiori imprese tedesche sono favorevoli. L’Italia non è un paese per donne. È sera, alla Tv c’è una tavola rotonda sugli avvenimenti in Egitto. Penso con amarezza alle nostre baruffe televisive. Alla discussione partecipano uomini e donne, vestite e competenti. Provo uno strano senso di sollievo.

Fuori: a Berlino dopo la riunificazione si è ricostruito e costruito, per ricomporre in una moderna unità le due parti divise dal muro e per dotare la capitale delle sedi delle istituzioni governative e parlamentari. Il luogo in cui si esercita la democrazia dà un’impressione di trasparenza e avvicinabilità. Potsdamerplatz è piena di palazzi avveniristici, di Helmut Jahn e Renzo Piano, ma accanto c’è un’installazione di pezzi di muro originali, con le spiegazioni di che cosa è avvenuto lungo il perimetro lasciato dall’abbattimento: giardini, edifici, strade, monumenti, realizzati con il coinvolgimento di storici e architetti, ma anche dei residenti. Da noi giornali e politici nascondono alla cittadinanza le informazioni sulle opere pubbliche, negandone il diritto democratico a partecipare alle decisioni sulle priorità e l’uso del denaro pubblico.

Per ricordare

“Sono stata esclusa dalla comunità”

La Germania non si può permettere l’oblio. Dopo anni di discussione, è sorto il drammatico Memoriale agli ebrei assassinati d’Europa, vicino alla Porta di Brandenburgo. Il Museo del Muro, al check point Charlie sulla Friedrichstraße, ricorda la ferocia della DDR con chi cercava di sfuggirle. Il nuovo museo ebraico di Liebeskind, ora che “i vuoti” voluti dall’architetto sono stati in parte riempiti, è diventato una mèta imperdibile per capire la Germania, e concentra in sé le emozioni della storia, nel passato riservate alla Gedächtniskirche, la chiesa lasciata come rovina a memoria degli orrori della guerra vicino alla Kurfürstendamm, ora soffocata dai centri commerciali.

La mostra al Deutsches Historisches Museum di Unter den Linden aveva come obiettivo di individuare i meccanismi del consenso popolare al nazismo. “Hitler und die Deutschen. Volksgemeischaft und Verbrechen” (Hitler e i tedeschi. Comunità di popolo e crimine) ha avuto un successo enorme.

Le mostre organizzate in precedenza dal Museo con i suoi ricchissimi materiali, sul nazionalsocialismo, il terrore, l’oppressione e il genocidio degli ebrei, ma anche dei polacchi e di altri popoli, avevano lasciato aperte domande brucianti. Come è stato possibile Hitler? Come fu possibile che il potere del partito nazionalsocialista potesse contare sempre su di un crescente e illimitato consenso sociale da parte della popolazione, durante tutta l’escalation attraverso violenza, assassini, crimini atroci, guerra e genocidio, fino allo sfacelo della Germania? Perché così tanti tedeschi furono pronti ad abbandonare i principi dello stato di diritto, a seguire gli incitamenti alla violenza e a lasciar annientare brutalmente le vite di innocenti?

Dittatore, regime e comunità di popolo dei tedeschi, sono i tre termini che gli autori della mostra hanno coniugato, per cercare risposte. Avevano di fronte un problema che finora, come ha scritto il presidente della Fondazione del Museo, aveva portato a rinunciare a mostre sul dittatore: il timore che l’esposizione di materiali e la presentazione della persona di Adolf Hitler contribuisse alla “fascinazione del male”.

Un uomo mediocre

1933, Berlino, Friedrichstrasse, campo di concentramento

Il percorso espositivo affianca ai materiali della propaganda la documentazione della realtà storica, in modo che il visitatore e la visitatrice riescano a comprenderne anche l’effetto suggestivo e l’illusione in cui tanti vissero. La visita è lunga ma non troppo faticosa, perché riesce a illuminare aspetti cruciali della storia. Nell’introduzione si descrive il futuro Führer come “uomo mediocre”, “di scarsi studi”, che non credeva di essere lui quel leader che invocava insieme al suo movimento per guidare il popolo alla ricostruzione dopo il disastro della guerra perduta. Nell’attività propagandistica del movimento poi divenuto NSDAP (Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori), la responsabilità delle difficoltà economiche veniva attribuita al marxismo, il nemico interno, comprendendovi non solo il comunismo, ma anche la socialdemocrazia, i sindacati e gli ebrei, in un unico oggetto di odio. Le strutture della politica vennero sostituite progressivamente dal culto del “capo”: il dittatore riceve migliaia di cartoline di auguri per il suo compleanno; si appropria di personaggi storici stimati dalla collettività per farne il proprio Pantheon, e si pone al di sopra delle leggi. Le pene inflitte dal tribunale di Monaco per il fallito golpe del 1923 (ad imitazione della marcia su Roma dei fascisti), vennero manipolate da Hitler e dai suoi camerati per attaccare la magistratura, rovesciando le responsabilità. La politica del partito nazionalsocialista, si riassume nella mostra, “portò allo svuotamento delle strutture dello stato e dei valori morali”.

Hitler arriva al potere aiutato dalla cecità della politica. Il suo libro, “Mein Kampf”, scritto in carcere nel 1923, ha una diffusione enorme, contrariamente a quanto talvolta si dice, e il suo contenuto terribile è chiarissimo. Chi scrive, pensa che le parole dei politici debbano essere prese alla lettera: allora non lo si fece, e non lo si fa oggi, quando si permette che taluni partiti o esponenti di partito offendano persone o minoranze (religiose, linguistiche, culturali, ecc.) e manifestino l’intenzione di far venir meno le istituzioni che garantiscono i diritti civili.

Nel tempo della crisi e del disorientamento, Hitler e il suo partito puntarono sulla Volksgemeinschaft, la comunità di popolo. Decine di associazioni collaterali al partito coinvolgevano in varie attività la comunità. La comunità soddisfa il bisogno di appartenenza e fa sentire protetti contro le avversità, ma ha un difetto: esclude chi non ne fa parte, non ne può far parte. Ebrei, comunisti, malati, anziani, portatori di handicap fisici e mentali vennero individuati ed esclusi dalla Volksgemeinschaft. Individuazione, il primo passo della “sequenza dello sterminio” descritta da Raul Hilberg. Oggi, che in reazione alle paure e al disorientamento della società liquida riappare la parola “comunità”, colpisce vedere descritto con chiarezza come tale aggregazione contenga già in sé il rischio della discriminazione. È in suo nome che i principi etici passano in secondo piano.

Il ruolo dei media

Nella mostra si chiarisce molto bene anche l’immenso potere di suggestione dei nuovi mass-media, con cui si suscitavano paure e odio, e si instillava nelle menti una presunta superiorità della nazione tedesca. A differenza dell’Italia mussoliniana e anche del dopoguerra, Hitler impose alle imprese di realizzare un modello popolare di apparecchio ricevente: la propaganda poteva raggiungere milioni di persone, nelle loro case, mentre fino ad allora nei comizi o nei congressi si parlava al massimo a 4.000 persone. (Oggi le rivoluzioni si fanno con un altro nuovo medium, Internet, che per sua stessa forma, agisce dal basso, al contrario della radio dei primi tempi). Anche la tecnica di stampa in offset contribuì a questo scopo. Il fotografo Heinrich Hoffmann riuscì a comunicare un’immagine di Hitler che ne accompagnò le fasi da agitatore politico a capo del partito, a cancelliere. “Mein Kampf”, pubblicato originariamente con il sottotitolo “Una resa dei conti”, divenne il “Libro dei tedeschi”.

Fra i documenti si trova il discorso segreto tenuto da Hitler alle forze armate all’indomani del suo primo incarico come cancelliere, in cui dichiara apertamente l’intenzione di cercare verso est “lo spazio vitale”. Già nel 1933 la guerra di aggressione e conquista era un suo preciso e dichiarato obiettivo. Non si ha notizia di reazioni contrarie. Perché nessun militare reagì o protestò?

Un’installazione molto divertente è quella video che riporta la visita di Mussolini a Berlino nel 1937. Il filmato è seguito senza commenti dallo spezzone del film “Il grande dittatore” di Charlie Chaplin in cui il dittatore Benzino Napoloni visita Adenoid Hynkel.

La mostra documenta il progetto di soppressione dei malati di mente, fermato almeno formalmente dall’indignazione e dalle proteste. E testimonia la partecipazione popolare alla persecuzione degli ebrei già nella prima fase: l’esclusione dalle scuole, i cartelli esposti in piccoli villaggi in cui si avvisa che “gli ebrei non sono graditi”, la gogna per chi dissente. Sterminio, ruolo delle donne, ambiguità delle chiese, mostrano fatti e partecipazione popolare.

Il dopoguerra fu segnato da un lungo oblio. I processi di Norimberga furono fatti a pochi grandi criminali. Milioni rimasero fuori. Nel 1949, il 50% dei tedeschi riteneva il nazionalsocialismo “una buona idea che è stata realizzata male”. Solo dopo il processo Eichmann nei giornali si ricominciò a parlare del passato.

Ogni nuova generazione, scrivono gli autori della mostra, ha riproposto la domanda: come è stato possibile? Ma - concludono - si deve dire che ancora i tedeschi non hanno finito di fare i conti con Hitler.

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Commenti (1)

Jutta Steigerwald

Cara Alessandra Zendron, grazie per questo articolo sulla mostra. Le domande ci lo poniamo ancora, ma oramai non solo sulla Germania, su tutti i luoghi dove ci sono delle crudeltà: Costruirsi il consenso popolare con delle manipolazioni dell'informazione, l'affidarsi ciecamente a delle "autorità", che autorità non sono, il coraggio che si vuole per non partecipare. Vedere lo svuotare di concetti e parole come nel caso di Hitler "comunità" escludendo tutti coloro che non fanno comodo o/e che non sono utile o/e semplicemente disturbano i propri scopi mentre al contrario una comunità include tutti e lavora per il bene di tutti. Sono solo alcune realtà che si vede a ripetere. Le domande che ci dobbiamo porre sono tante e profonde. Speriamo a trovare anche le risposte giuste.
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