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QT n. 16, 2 ottobre 2004 Servizi

Dal blocco-notes di un maestro di campagna

Quinto Antonelli

Oggi è finita la scuola. Per me è finito un ciclo e l’anno prossimo ricomincio da capo. I miei ragazzi hanno voluto festeggiare e mi hanno regalato una cosa, così, anche se poco incline, mi son dovuto commuovere. Prima c’era stata la messa che io non volevo. "Sarebbe ora - avevo detto al collegio dei docenti - di interrompere la tradizione. Che i credenti si trovino in un tempo tutto loro al di fuori della scuola e la smettano di celebrare una scadenza civile con un rito religioso".

"Va bene - hanno risposto i colleghi - sarà per il prossimo anno, ormai che vuoi, il parroco è già stato avvisato, i genitori si sono attivati, i bambini da mesi provano i canti..".

Non ho insistito e sono andato alla messa. Ma, dio mio, che letargo penoso! Niente di particolarmente solenne, di prezioso, di formale, ma anche niente di comunitario, di familiare, di amicale, di gratuito: all’incirca un rito borghese ma piccolo piccolo.

"Signore pietà!". Incominciano a gridare, incuranti della terribile invocazione che mi gela il cuore e dovrei vederli prostrati sotto la minaccia di una intera vita che per fortuna non riescono ad immaginare. Pietà, invece, perché non ho fatto i compiti, perché non ho obbedito, perché ho fatto arrabbiare i maestri; pietà perché ho semplicemente vissuto, sono esistito, ho resistito. L’universo della fede è l’universo dell’ordine e del buon comportamento e Dio il piccolo contabile in babbucce, il misero maestro tiraorecchie.

Fuori c’era il sole e lì mi sentivo soffocare tanto lo spazio si era ristretto e il tempo rarefatto e allora ho pensato alle cose che insieme abbiamo detto e vissuto con convinzione. Come quando Silvia è arrivata in classe determinata a scrivere a Shamir una lettera di protesta per la questione palestinese. Si è letto, discusso, intervistato un reporter, poi loro hanno scritto la lettera: "Egregio signor Shamir, noi siamo una classe di quattordici bambini italiani. In questi giorni abbiamo visto il telegiornale e abbiamo sentito le notizie di guerra in cui sono coinvolti i bambini palestinesi. Abbiamo anche letto una rivista che racconta le sofferenze e le paure dei bambini palestinesi. Le scriviamo per chiedere di risparmiare i bambini perché sono come noi, bambini, e non vogliamo che gli rovinate l’infanzia. Infatti abbiamo letto che i disegni di questi bambini sono pieni di pietre, sangue e soldati e che da grandi potrebbero diventare molto violenti. Le scriviamo perché vorremmo che lei facesse finire questa guerra e divida lo stato in due. Una parte sarebbe lo stato palestinese e l’altro lo stato ebraico. Però vorremmo che i bambini ebrei potessero fare amicizia con i bambini palestinesi". (Sono a messa, mi fanno male le ginocchia e se sto seduto il banco mi sega la schiena e la donna dietro mi urla nelle orecchie).

Penso che se tutto questo ha un senso, il senso di chiudere l’anno scolastico, il senso di ringraziare Dio, allora il prete dovrebbe sapere che hanno fatto i bambini oltre a disubbidire, non studiare, essere peccatori tanto da doversi "lavare il cuore" e chiedere perdono. Insomma la pietà era tutta mia a vederli così immiseriti, loro che avevano tentato di conoscere il mondo e dalle favole alla storia erano penetrati nei misteri degli adulti e avevano capito (mi si lasci l’illusione ora che non li vedrò più) il valore della solidarietà.

La messa corre verso la fine. Il prete ci ringrazia, cioè ringrazia la scuola per aver scelto la chiesa perché "ora ci vuole coraggio". Figuriamoci!

Ormai siamo fuori, della messa sembra non sia rimasto nemmeno l’ombra del ricordo. Ma è sempre lì, come la televisione e tante altre imposture laiche, luoghi fissi, dati, naturali da frequentare in modo immotivato, circolarmente, sempre più circolarmente, finché ci si assopisce.

10 giugno 1989