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“Latin lover” di Cristina Comencini

Una commediola

In occasione del 10° anno dalla morte di Saverio Crispo, divo del cinema anni ‘60, si riuniscono nel natio paese della Puglia le due ex mogli e le figlie, avute in diverse parti del mondo, da diverse donne. Un gineceo di rivali a contendersi il ricordo del padre, figura mitica che queste donne hanno contribuito a creare. Ma la riunione porterà a una riconsiderazione, se non della grandezza artistica dell’attore, dell’uomo nella sua vita fuori scena. Dopo un’esistenza subalterna al loro idolo, grazie a una serie di rivelazioni, le protagoniste si sentiranno finalmente liberate dallo sguardo di Saverio, più loro stesse e meno in competizione.

Poteva essere una buona idea, ancorché rischiosa, l’omaggio al grande cinema italiano dei decenni tra i ‘50 e ‘70 che, al contempo, sbertucciava il maschilismo fatuo e narcisista dei suoi principali protagonisti. Ancor più considerando il cognome della regista, garanzia di una realtà vissuta personalmente.

Poteva, ma purtroppo il risultato è piuttosto deludente. Il film, tutto insistito al femminile (regia, sceneggiatura, interpreti), rievoca il cinema degli anni ‘50-’70, citando esplicitamente Sordi, Gassman, Mastroianni e Volontè, ma di fatto non ci dice niente di veramente interessante. Difficile appassionarsi alle tragicomiche vicende di queste donne tutte, pur diversamente, vittime consenzienti del fascino del loro adorato divo. Non parliamo delle figure maschili, tutte accessorie e stereotipate: il latin lover, i padri assenti, i mariti traditori, il bisex, gli adulatori, i vecchi tromboni nostalgici...

C’è qualche momento riuscito e qualche passaggio divertente, ma manca il ritmo e ancor più un cardine, un personaggio perno forte e carismatico. Avrebbe potuto esserlo la Finocchiaro, ma nell’intento democratico/corale della regista parti e battute sono equamente distribuite. Purtroppo il mosaico di personaggi inscena situazioni prive di una vera narrazione, creando per lo più una frammentazione che nuoce alla fluidità. Così le sequenze scorrono come un assemblaggio di siparietti tra il prevedibile e l’improbabile, allo scopo insistito di sminuire le figure maschili (l’uomo che conquista tante donne in realtà non le ama, ma le fugge...).

Insomma stereotipi superficiali, totalmente privi della possibilità di una pur blanda critica alla nostra complessa contemporaneità. Qualche cattiveria affiora, ma sono per lo più fili sotterranei di perfidia, invidia, gelosia, caratteri individuali, piuttosto che vizi, tare, riflessi della nostra società. Infine i personaggi da commedia stridono in alcune pieghe naturalistiche del film.

Il grande cinema italiano del passato, a parte gli interpreti, era tutto maschile e, quando voleva, sapeva essere feroce con tutti, gli uomini per primi. Le storie, anche delle commedie, erano potenti, gli interpreti straordinari, le cose da dire significative e lo sguardo sul mondo graffiante, impietoso. La capacità di mescolare dramma e commedia insuperabile.

Un americano a Roma, Il sorpasso, Brancaleone, La classe operaia va in paradiso, Per un pugno di dollari..., tutti film esplicitamente citati (per non dimenticare Tutti a casa, il capolavoro del padre della regista) sono pilastri di un cinema di uomini, dei loro pregi e difetti, per lo più patetici e simpatetici. Cinema tragico e divertente, violento e debole, alto e basso, colto e popolare. Cinema di dualismi e conflitti, cinema scomparso in un mondo sempre più femminilizzato, che alla dialettica, ai contrasti preferisce l’educazione, la cortesia, il volemose bene. Non sono io a farne una questione di genere, quanto piuttosto la regista con le sue scelte. Ma se lo sguardo femminile al cinema di oggi è questa commediola di ecumenica, tarda emancipazione, mi spiace dirlo, quello dei padri lo spazza via in una sola sequenza.

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