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QT n. 2, febbraio 2016 Servizi

Migranti e femministe

I deprecabili fatti di capodanno a Colonia e altrove hanno avuto, soprattutto in Italia, una lettura e dei commenti assurdamente strumentali

“Dove sono le femministe, adesso?”. Se lo sono chiesto in tanti, nei giorni successivi ai famigerati fatti di capodanno a Colonia. Con l’emotività alle stelle, l’informazione seria (da leggere l’inchiesta dello Spiegel, tradotta in Italia da Internazionale) cercava ancora di farsi strada tra le urla per capire cosa fosse davvero successo in quella che è risultata una notte di orrore machista, con squadriglie di uomini, per grandissima parte provenienti dal Maghreb, impegnati nel palpeggio, furto e, almeno in due casi, stupro delle donne passate vicino alla stazione ferroviaria della città tedesca, con le forze dell’ordine locali del tutto incapaci di porre un freno.

Molte altre fonti informative, quelle italiane tristemente in testa, si sono invece date battaglia allo scopo di screditare due obiettivi: le politiche migratorie giudicate troppo accoglienti e, appunto, delle non meglio identificate femministe, ritenute troppo lente e poco battagliere nel condannare stupri e molestie quando commessi da immigrati.

Sono andato, allora, a farmi un giro per i blog del femminismo militante d’Europa. E vi ho trovato riflessioni molto interessanti, che mi hanno fatto pensare che le femministe, dopo Colonia, erano dove si trovavano prima e dove si troveranno in futuro: a difendere, oltre che le donne stesse, la decenza, la civiltà e l’uso dell’intelligenza anche nei momenti di tensione emotiva. Un termine ha catturato la mia attenzione: purplewashing, “lavaggio viola”, definito come la tendenza ad utilizzare strumentalmente le conquiste sociali e giuridiche della civiltà europea solo nei momenti in cui servono per screditare le civiltà altrui. La difesa delle donne solo ed esclusivamente allo scopo di diffondere la xenofobia e l’ulteriore chiusura della già auto-referenziale Europa. Fatta, oltretutto, rischiando spesso di cadere nel tribalismo possessivo della difesa delle “nostre” donne, come in un infelice tweet di Bruno Vespa che ha fatto interrogare molti su quale particolare fascino o carisma renderebbe, per una donna europea, il presentatore di “Porta a Porta” un padrone più intrigante di un maghrebino ubriaco. È questo che il femminismo europeo ha voluto rigettare, con coraggio, anche quando il clima collettivo avrebbe suggerito di unirsi al coro indignato.

Significa ciò difendere, o giustificare, una violenza poiché commessa da un soggetto più debole in quanto immigrato? Assolutamente no.

Significa negare che gran parte dei migranti in arrivo nel nostro continente vengano da contesti dove i diritti delle donne sono assai meno tutelati che in tanti paesi europei? Nemmeno.

Sono in molte a citare, in questi giorni, la femminista turca Deniz Kandyoti e la sua definizione di “cintura patriarcale”, la zona geografica dall’Egitto all’India dove i diritti delle donne sono ai minimi storici e dove le femministe combattono per il diritto ad uscire di casa ed andare a scuola, non certo sulle quote rosa nei consigli d’amministrazione. Sono però in tante, contemporaneamente, a riconoscere che essere un uomo proveniente da un contesto patriarcale non rende qualcuno automaticamente uno stupratore. Le analisi femministe di Colonia sollecitano e ricordano che davanti alla violenza di genere bisognerebbe mantenere l’attenzione alta in ogni frangente, e non solo quando lo impone la cronaca.

La realtà è che, in mezzo alle urla, sono proprio le donne più solide e consapevoli a portare avanti il percorso verso un’integrazione rispettosa dei diritti. Parlo, soprattutto, delle centinaia di operatrici impegnate oggi nei progetti di accoglienza per richiedenti asilo, i primi volti e corpi di donne europee che i migranti si trovano davanti, capaci di aiutarli a recuperare la loro dignità mandando, contemporaneamente, messaggi chiari circa la propria. Donne che dovrebbero sentire il sostegno fermo ed inamovibile dell’intera società, stampa e pubblica opinione.

Una società, una stampa ed una pubblica opinione che, così fermamente convinte della propria incorruttibile fedeltà ai diritti delle donne, dovrebbero, dopo un fatto come quello di Colonia, ascoltare con attenzione proprio le analisi delle donne, operatrici o femministe, invece che cercare ad ogni costo mezzucci per screditarle.

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