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QT n. 5, maggio 2016 Servizi

Un rapporto difficile

A volte fra chi crea e chi interpreta, fra il poeta e il professore, possono sorgere degli equivoci imbarazzanti. Come in un incontro a Trento...

Valentina Lovato
Claudio Salvagno

In questo articolo parliamo di attendibilità dei metodi di lavoro del mondo accademico. L’occasione è un incontro tenutosi il 19 aprile presso il dipartimento di Lettere, dal titolo “La poesia occitana oggi”, cui hanno partecipato come ospiti due poeti occitani contemporanei: Franc Bardou e Claudio Salvagno.

Per un profano dell’argomento erano molto utili le contestualizzazioni storiche e letterarie date dai professori responsabili del seminario; essi hanno saputo, brevemente ma approfonditamente, fornire agli ascoltatori le conoscenze basilari sul tema della lingua occitana. Si è quindi dato spazio ai due poeti, che hanno avuto modo di parlare di sé e delle proprie opere.

Bardou, francese di Tolosa, ha descritto lungamente il suo rapporto con la lingua occitana, che ha approfondito anche da un punto di vista accademico durante la sua carriera universitaria; le sue poesie sono ricchissime di riferimenti alla tradizione dei trovatori, ricercate dal punto di vista del significante e di molteplice lettura riguardo i contenuti. Bardou ha saputo intrattenere il pubblico grazie a una ars oratoria coinvolgente (nonostante parlasse solo francese e occitano), visibilmente a suo agio nei panni del relatore.

Molto diverso è stato invece l’intervento di Salvagno, piemontese di Bernezzo, ex contadino in pensione che ora si dedica alla scrittura e alla scultura del legno. Sembrava fosse lì per caso: stretto in una camicia a quadretti abbottonata fino alla gola, quasi per cercare di imitare un’eleganza non voluta per davvero; un po’ incurvato su se stesso, qualche foglio stretto forte fra le mani tremanti e nodose. Che fosse agitatissimo lo si capiva ad una prima occhiata.

Il professore responsabile, Francesco Zambon, ha iniziato a introdurlo mettendo in risalto la particolarità dei suoi libri di versi e partendo dalla definizione della sua “posizione”: il carattere narrativo e descrittivo utilizzato per parlare delle sue vallate e della sua comunità, il legame con il territorio molto forte, quasi simbiotico, “forse dovuto anche al suo lavoro di contadino?” ha ipotizzato il professore. Una definizione lavorativa che lì per lì è sembrata appropriata, utile soprattutto a definire sia il contesto di provenienza sia la sensibilità sviluppata attraverso la propria occupazione.

Tuttavia, da lì in avanti, il dialogo ha subìto un radicale cambiamento, permeato da una leggera tensione, se non un imbarazzo vero e proprio, nel cercare di parlare di qualcosa che per uno era pura e naturale espressione di sé, per l’altro invece era un oggetto di studio. Il poeta cercava di ancorare la sua opera all’identità geografica e culturale occitana; il professore invece cercava con determinazione di trovare significati altri, interpretazioni ulteriori, che per quanto legittimi erano sue creazioni. Ad esempio, quando di Salvagno si è citato il libro di versi “L’emperi de l’ombra”, per il professore era l’eclissi cui sembra condannata la lingua occitana, per il poeta contadino “no, è che nella mia valle il sole c’è proprio poco”.

Di qui uno straniamento: evidentemente non sempre gli studiosi riescono ad utilizzare i propri strumenti alla comprensione profonda dell’argomento; esiste, permane un’incapacità di comunicazione tra chi “produce” e chi studia.

Insomma il sapere specialistico può essere tentato da questo approccio, di pretendere di capire più degli autori stessi, il che ci può anche stare; basta che non si finisca con il rifiutare una cultura popolare creata e vissuta senza velleità letterarie ma solo (solo?) come libera espressione. In particolare quella dei due poeti occitani, come da essi spiegato, è un tipo di letteratura che esiste per “forgiare l’identità culturale degli abitanti della contea” e per poter “ritardare il più possibile la fine del nostro dialetto” (come scrivono due altri poeti occitani, rispettivamente Bres e Brun).

Di questo abbiamo in seguito parlato con Salvagno, che contesta come nella sua poesia vengano spesso esaltati i riferimenti ai trovatori, mentre per lui lo scrivere rimane semplicemente una necessità espressiva: “È, insieme, un sollievo e un dolore quello che si prova”. Non fosse stato per amici studiosi della lingua occitana, non avrebbe mai pensato di pubblicare ciò che scriveva, dice. È incapace di giudicare le proprie poesie, tanto meno in situazioni pubbliche in cui non si sente mai all’altezza.

Insomma, forse è una forma di costrizione voler incasellare per forza delle forme espressive che nascono per essere testimoni di se stesse, che raccontano di mondi in via d’estinzione con una semplicità e un’immediatezza tali da renderle esattamente quello che sono, l’ultimo modo di un popolo per, come sosteneva il poeta Galléan, “rendere le cose più belle se raccontate nel nostro vecchio parlare”.

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