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“Il nome della rosa”

L’Eco della ragione e della conoscenza

“Il nome della rosa”

In principio... fu il capolavoro letterario di Umberto Eco, un romanzo capace di mettere d’accordo pubblico e critica, vincitore nel 1981 del Premio Strega e tradotto in 47 lingue. Venne poi il turno, nel 1986, della fortunata trasposizione cinematografica diretta da Jean-Jacques Annaud. Ora Il nome della rosa sbarca a teatro.

Per riuscire nell’impresa, tre Stabili di qualità (Genova, Torino e Veneto) hanno unito le forze. La riduzione per la scena è affidata a Stefano Massini, la regia a Leo Muscato, l’interpretazione a un cast di attori di livello. Un’opera che dispone di mezzi produttivi importanti, gestiti (cosa non scontata) con fine intelligenza artistica.

Lo spettacolo ha replicato dal 22 al 25 marzo (qui faremo riferimento alla prima) al Sociale di Trento. Intrigante notare come la tournée stagionale si sia conclusa nel principale teatro della città che lo scorso anno proclamò Il nome della rosa vincitore del concorso “Un libro, una città”.

La versione teatrale di Massini è da applausi: senza tradire l’originale, riesce con una scrittura pregnante a condensarne l’essenza, evidenziando l’azione principale (la risoluzione di un giallo) senza mettere in ombra i contenuti storici e politici, filosofici e teologici. Oltre 500 pagine possono così essere rese in poco più di due ore di spettacolo. Quel che deve essere sacrificato nella traslazione dal romanzo alla drammaturgia – si pensi soprattutto alle minuziose descrizioni dell’architettura del monastero, nonché della labirintica biblioteca – è reso visivamente dalla magniloquenza della scenografia, dei macchinari scenici, del videomapping, delle luci. Margherita Palli costruisce una scena imponente e profonda, fatta di scale e piani rialzati, ingressi e colonne, arricchita con tiranti per calare dall’alto oggetti essenziali, e con macchine-carro per facilitarne il movimento sul palco. In alcuni passaggi la scena è costituita dal solo videomapping (Fabio Massimo Iaquone, Luca Attilii), che le conferisce un’aura di mistero e sacralità. Gli effetti scenici migliori si ottengono quando scenografia, video e luci (Alessandro Verazzi) diventano un tutt’uno, quando cioè la scena viene invasa da rosoni e orologi, libri e parole ricopiate dagli amanuensi, vetrate e teschi, neve lieve e fuoco dirompente.

La regia di Muscato è fedele e vivificatrice, omaggia il romanzo ma ha il pregio di fargli prendere vita sulla scena. D’altronde, è difficile chiedere uno scarto forte su un testo simile.

Su questo punto torneremo; bisogna prima dire qualcosa sugli attori, strumenti vivi che danno forma alle visioni del regista. Geniale è lo sdoppiamento di Adso da Melk, narratore ottantenne che ricorda una vicenda da lui vissuta da novizio; il primo ha la voce calda e avvolgente di Luigi Diberti, il secondo la giovinezza di Giovanni Anzaldo. Del Guglielmo da Baskerville di Luca Lazzareschi rapisce la sveltezza di lingua e la finezza del ragionamento. Diverte Alfonso Postiglione nei panni di un Salvatore comico ed esagerato nel suo linguaggio babelico che confonde lingue e modulazioni. E poi Eugenio Allegri, che dà corpo ad Ubertino da Casale e poi al terribile inquisitore Bernardo Gui, incaricato non di individuare il colpevole ma di punire i sospetti. E ancora la vasta umanità dei monaci pennellati da Eco, fino a Jorge (Bob Marchese), che condanna il riso perché sovversivo per l’ordine costituito e fino in fondo cerca di nascondere la verità. Insomma, un Medioevo tutto al maschile, dove l’unica figura femminile (Arianna Primavera) non proferisce parola ma ha un canto armonioso, come quando attraversa la scena seguita da un fuoco-rogo.

Non è affare semplice, si diceva, offrire uno scarto su un testo a più livelli e che contiene già in sé tutto. Affiora però l’innegabile merito di porre una forte riflessione sulla liceità del riso, sull’ironia e sulla curiosità, sul filo sottile tra menzogna e verità, sulla forza della ragione e sulla bellezza della conoscenza. Eco ne sarebbe felice

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