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La tratta delle nigeriane

Il reclutamento, poi il viaggio, attraverso il Niger e il deserto fino in Libia, con l’inferno delle bande militari. Infine in Italia, nei centri destinati ai richiedenti asilo, da dove è facile portarle via, verso la prostituzione. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Pia Covre. A cura di Enrica Casanova e Gianni Saporetti

Negli arrivi, soprattutto dalla Libia, ci sono moltissime donne nigeriane, alcune anche minorenni, che vengono poi indirizzate al mercato della prostituzione. Negli ultimi anni il loro reclutamento è cambiato. Prima l’organizzazione criminale andava nei villaggi, avvicinava le famiglie che avevano bisogno e che potevano decidere di far emigrare magari la figlia più grande. Si faceva un contratto: le famiglie si indebitavano per pagare, però poi avevano le rimesse dalla figlia che arrivava in Italia indebitata, completamente soggiogata dallo juju (la religione tradizionale, con relative stregonerie e minacce), ma anche circondata da una rete di amicizie, spesso con sorelle o cugine già all’estero.

Ora invece le ragazze vengono reclutate ovunque, anche di fronte alla scuola che frequentano. Spesso il progetto migratorio non è più costruito in famiglia. Abbiamo avuto studentesse avvicinate da qualcuno che conoscevano che ha detto loro: “Vuoi andare a fare un viaggio in Europa? Lì puoi trovare da lavorare, puoi fare la babysitter, la parrucchiera, si guadagna bene, ti procuro io il viaggio, costa poco, non ti preoccupare, ci paghi quando lavori”. Le reclutano così un po’ ovunque, nelle città, nei mercati, fuori delle scuole, nei villaggi e qui arriva un po’ di tutto. Una volta che le hanno convinte, i reclutatori le accompagnano dove ci sono gli autobus che vanno in Niger, vengono pagati con pochi soldi, forse 50 dollari a ragazza, che ricevono dall’autista dell’autobus, che a quel punto le prende in carico per trasportarle fino al confine, sul Niger, dove qualcun altro lo paga, e le prende in consegna, a sua volta, per farle arrivare in Libia, dove ad aspettare questi autobus ci sono dei trafficanti libici che pagano il viaggio agli autisti e poi portano le ragazze nelle cosiddette connection house, e lì cominciano gli stupri, se non sono già cominciati prima. Le ragazze sono a disposizione di tutte le bande militari che transitano di là, che pagano per poter andare in questo “sfogatoio” e se le ragazze si ribellano possono anche ucciderle. Poi un certo giorno gli dicono: “Vai, corri, c’è la barca”, e le fanno partire. In Europa, infine, c’è qualcuno della rete che ha pagato per loro, che addirittura potrebbe averle “ordinate”.

Secondo me, chi gestisce tutto sono queste bande di militari che controllano il paese. Penso che la sosta sia organizzata proprio a scopo di una tenuta, diciamo, tranquilla, dei gruppi militari. Poi, ci sono anche quelli che pagano. Una ci ha raccontato che lei aveva avuto più volte la visita di un uomo, non militare, che poi l’aveva portata a casa sua. L’ha anche trattata bene, e dopo circa un mese l’ha messa su una barca e così lei è arrivata in Sicilia.

Quando arrivano in Italia, queste ragazze non vengono smistate diversamente dagli altri rifugiati e finiscono in un centro di identificazione Cas in Sicilia, oppure trasferite nei centri in giro per l’Italia. Non c’è separazione fra loro e il resto dei rifugiati. Possono fare la domanda di asilo, e se ci stanno due o tre giorni la fanno, ma quello che riscontriamo è che quasi subito vengono contattate o da qualcuno che è dentro al Cas, o anche dall’esterno.

Va ricordato che chi entra come rifugiato non è obbligato a stare dentro, può uscire tutto il giorno e rientrare la sera, quindi per gli affiliati alla rete dei trafficanti, pagati per intercettare queste ragazze, è facile rintracciarle. Secondo noi ci sono proprio delle sentinelle sul territorio che intercettano le ragazze nigeriane per dir loro di non stare a far domanda: preferiscono averle senza documenti, senza asilo, così saranno più ricattabili. Comunque sia, le rimettono prontamente in viaggio per una città e le mettono subito a lavorare appena arrivano.

Il problema è che la rete di protezione si è sfilacciata, si sono aperti dei buchi per via del dimezzamento dei finanziamenti al cosiddetto “progetto tratta”. Poi c’è anche chi – Puglia, Sicilia e Sardegna – il progetto non l’ha neppure presentato. Quindi dove non c’è un “progetto tratta”, le ragazze che arrivano finiscono nel progetto rifugiati, che non ha una protezione specifica e anche i programmi di integrazione sono diversi. Anche se una resta nel Cas e riceve il riconoscimento d’asilo, non avrà comunque alcuna integrazione a un lavoro e rischia di finire nelle mani dei trafficanti.

Altri sfruttamenti

Non tutte le donne che arrivano finiscono nella prostituzione, finiscono anche in altri mercati di sfruttamento: ad esempio l’agricoltura e l’accattonaggio. Ultimamente poi, si è evidenziato un nuovo pericolo: molte di queste donne vengano utilizzate per lo spaccio di sostanze. Una è stata trovata con parecchi ovuli in pancia. Pensavano fosse scappata per non stare più nel Cas, e invece è stata arrestata in Sardegna perché stava male e le hanno trovato la droga. A Torino il mercato della droga è in mano ai nigeriani, che adesso stanno inserendo le donne nel traffico. Abbiamo anche saputo che in Nigeria hanno imparato a produrre una droga in casa con dei pentoloni e insegnano alle ragazze a farla.

Io ho anche il sospetto di un altro traffico. Molte donne stuprate in Libia arrivano in Italia incinte; alcune, appena arrivano, chiedono di abortire, altre, invece, vogliono tenere il bambino e dicono che hanno un fidanzato, conosciuto quando sono sbarcate o durante il viaggio, che è disposto a riconoscere il figlio. In realtà credo che a molte di queste ragazze venga proposto di far riconoscere il bambino da qualcuno che magari è già in Italia da anni ma non è riuscito ad avere un permesso di soggiorno. Se lei ottiene lo status di rifugiata come vittima di tratta e dice che ha un fidanzato che è il padre, domani potrà chiedere un ricongiungimento familiare e lui avrà diritto al permesso di soggiorno. Questi bambini frutto di stupro possono diventare quindi un nuovo affare. Qualcuno può dire a un immigrato: “Senti, se vuoi un permesso di soggiorno, ti sposi questa ragazza, oppure riconosci il figlio, e lei farà il ricongiungimento familiare. Ti procuro questo affare per tot euro”.

In conclusione, la donna che prima, all’interno di un progetto familiare, veniva sperando di lavorare e magari si adattava a prostituirsi, era addirittura meno condizionata di adesso. Ora per una che viene presa fuori dalla scuola e pensa di andare a fare una vacanza in Europa, a fare un lavoretto come baby sitter e poi magari di tornare a casa, un po’ come andavamo noi a Londra, è ben diverso.

La famiglia connivente

Le famiglie in Nigeria sono quasi sempre conniventi, perché contano di ricevere le rimesse. Pochi si preoccupano veramente. In alcuni casi, quando le donne abbandonano i trafficanti e superano anche la paura del juju e tramite il nostro programma di accoglienza trovano un lavoro, allora cercano di mandare comunque qualche euro alla famiglia. Ma è chiaro che espongono la famiglia in qualche modo; i parenti si preoccupano del juju, temono rappresaglie. Le donne vengono minacciate: “Se ti ribelli, io faccio un maleficio alla tua famiglia”. È inevitabile che molte ragazze si spaventino, si intristiscano e smettano di partecipare. Il ricatto è forte e funziona. Così la ragazza telefona e dice che sta bene e le famiglie non si preoccupano. Ma non capita mai che chiamino loro o mandino una mail per chiedere se la loro figlia sta bene. Non ho mai visto una preoccupazione sincera da parte delle famiglie, mentre se le ragazze scappano dai trafficanti le famiglie subito si allarmano, sia per i soldi che per la paura di essere minacciate dai trafficanti.

Le famiglie lì sono molto allargate: quando una dice che è arrivata la cognata, la sorella, oppure quando ti presenta suo fratello, non si sa mai se è vero. Io ho conosciuto una donna qui in Italia la cui figlia è andata in Nigeria e ha sposato suo fratello. Siccome la burocrazia, le carte, le anagrafi in Nigeria sono molto diverse da qua, lei l’ha fatto passare come suo marito. In realtà era il fratello. Dopo di che è venuta qua e ha fatto la richiesta di ricongiungimento. E lui ha avuto il permesso di soggiorno.

Un altro problema è che non c’è collaborazione fra le forze di polizia internazionali. Questo si faceva nei primi anni dopo il Duemila, quando in Nigeria lavoravamo con un governatore serio, la cui moglie aveva fatto una grande campagna contro la tratta basata su slogan come “Le ragazze non devono essere vendute”, “Le donne nigeriane hanno una dignità”. Allora è stato possibile lottare su due fronti; avevano messo su una task force nigeriana per costruire un sistema integrato con la polizia e la magistratura italiana per poter proteggere là le famiglie di donne che qui facevano denuncia per sottrarsi alla tratta. Però la Nigeria è un paese molto corrotto e una volta che sono cambiati quei dirigenti, il collegamento costruito per colpire i trafficanti è venuto meno.

Che fare?

Secondo me, le donne che arrivano dalla Nigeria via Libia dovrebbero essere tenute separate dal resto dei richiedenti asilo. A parte rari casi, in cui probabilmente hanno effettivamente dei parenti da raggiungere in Europa, la gran parte dovrebbe essere trattenuta in centri dove insegnare loro a leggere e scrivere se non hanno completato gli studi, impratichirle a un lavoro, e poi, con i nostri progetti di cooperazione, riportarle nei loro paesi e impiegarle lì anche per fare, nelle scuole, campagne di informazione sulla tratta. Questo per abbattere l’omertà che c’è attorno a questo fenomeno.

È vero che loro non hanno magari voglia di tornare a casa confessando che il loro processo migratorio è fallito, ma forse, se le educhiamo adeguatamente e mettiamo in piedi un progetto ambizioso, potremmo convincerle. Altrimenti ci saranno continue partenze, perché le donne là hanno poche possibilità.

Purtroppo i nostri progetti non sono sufficientemente forti per un’accoglienza numericamente significativa. In più non abbiamo strumenti per trattenerle, nel senso che da noi l’autodeterminazione è quello che conta: se vuoi ci stai e fai il tuo percorso, se no sei libera, e io comincio a pensare che questa non sia una cosa giusta, perché non ha delle ricadute positive significative. La “concorrenza” è fortissima: quante volte in passato abbiamo visto ragazze che dopo essere state sfruttate e aver pagato il debito, hanno preso a sfruttare a loro volta?

A tutto questo, almeno in Italia, si vanno ad aggiungere delle politiche sbagliate. Per esempio, hanno ridato ai sindaci il potere di fare le ordinanze contro tutto ciò che loro chiamano “degrado” - quindi mendicanti, prostitute... - comminando multe a loro e ai loro clienti, quando, fra l’altro, il decreto Maroni, che prevedeva le stesse cose, era stato già bocciato dalla Corte Costituzionale. Questo approccio, oltre a distogliere le forze dell’ordine dai crimini veri, non aiuta le vittime di tratta, anzi le mette doppiamente in difficoltà, perché vengono più spesso rastrellate e, siccome non hanno i documenti in regola, vengono riportate nei Centri di identificazione ed espulsione, dove stanno qualche mese in attesa di essere rimpatriate. Così si seguitano a fare le stesse cose, continuando a investire nella repressione spicciola, che non colpisce né i grandi trafficanti né le grandi reti, ma contribuisce a rendere la tratta sempre più nascosta.

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Pia Covre è la fondatrice dell’Onlus Comitato per i diritti civili delle prostitute.