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Donne senza diritti

Chi si impegna con gli immigrati, a volte vede sparire all’improvviso delle ragazze, destinate a nozze combinate. Ma a sinistra si esita ad approfondire per evitare l’accusa di islamofobia. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Tiziana Dal Pra, Paola Sabbatani

Quella di Saman Abbas – la ragazza pachistana uccisa da un complotto famigliare perché rifiutava un matrimonio combinato - è una storia in qualche modo già scritta, ma che forse si poteva evitare alla luce del primo episodio analogo avvenuto in Italia: la vicenda di Hina Saleem, un'altra giovane pachistana uccisa dai parenti.

L’idea di potersi muovere e realizzare come donne in maniera autonoma, non è un’idea occidentale, è un’idea di tutte le donne. Io ho trovato la storia di queste ragazze simile alla mia storia. Certo, io non sono straniera, ma quando avevo 12-13 anni, vivevo nel Veneto fondamentalista, e tutto era sotto un forte controllo sociale. Una specie di occhio gigante osservava come vivevi tu e la tua famiglia, assicurandosi che nessuno uscisse dalle regole, anche se noi avevamo degli spazi di libertà. Questo per dire che sognare di diventare quello che desideriamo, di amare, di essere autonome dalla famiglia, di scegliere il nostro lavoro, di decidere come vestirci, è universale. Il fatto è che queste ragazze, a differenza dei tempi della mia adolescenza, arrivano in un contesto dove la libertà sembra a portata di mano.

Nel 1997 abbiamo fondato l’associazione “Trama di terre”, con le donne migranti. All’epoca molte insegnanti ci raccontavano di ragazze che improvvisamente scomparivano. Erano magari bravissime, avevano amiche e una normale vita di relazione, dopodiché da un giorno all'altro non tornavano più a scuola.

Ho quindi iniziato a interrogarmi, volevo capire cosa stesse accadendo e così, nel 2009, quando la regione Emilia-Romagna mi ha chiesto se come associazione avessimo delle proposte, ho suggerito di indagare sui matrimoni precoci, su quelli combinati e forzati.

Abbiamo così svolto una prima ricerca insieme a delle mediatrici culturali. Mi sono anche recata in Marocco - il paese da cui proveniva il maggior numero di donne straniere in regione – e lì abbiamo iniziato a capire dove stesse la radice del problema. Perché queste ragazze subivano ancora i matrimoni forzati quando nel 2004, col nuovo diritto di famiglia, era stata promulgata una legge che li rendeva illegali? Ecco una cosa che ho imparato: non basta promulgare le leggi. Se queste non vengono recepite dalla società come un diritto, sono destinate a essere aggirate con mille stratagemmi.

Nel 2011, dopo i primi convegni sul tema, Action Aid ci propose un progetto sulle seconde generazioni. Abbiamo così potuto dare continuità al nostro lavoro, aprendo la prima casa rifugio per ragazze in fuga da matrimoni forzati e da tutte le limitazioni delle libertà personali.

La condivisione della quotidianità con queste donne mi ha permesso di approfondire ciò che avevo visto. Queste donne, quando si esponevano e magari confidavano a un’insegnante che avevano un biglietto aereo e che non sarebbero tornate, non venivano aiutate. Il loro era un vero e proprio grido di aiuto, ma nel 90% dei casi cadeva nell’indifferenza.

In Italia abbiamo realizzato progetti e attività in ambito scolastico, pedagogico, per la salute, ma non abbiamo mai ragionato sull’intercultura di genere. Manca una lettura che vada oltre una visione delle donne come “categoria”.

La sinistra crea delle categorie, per cui il migrante, ad esempio, è da salvare sempre e comunque. Certo, ma dentro i diritti universali ci sono anche i diritti delle donne. Non si può ignorare questo problema temendo di essere definiti razzisti o islamofobi.

Perché in una regione progressista come la nostra, abbiamo dei territori che sono stati teatro delle vicende più gravi? Purtroppo la paura di criminalizzare una comunità spinge tanti a tacere, perché qualsiasi critica può essere strumentalizzata per dire che i pakistani sono tutti assassini, retrogradi.

Spesso mi viene chiesto di queste madri, del loro comportamento. Ma quelle sono donne che hanno subìto la stessa sorte delle figlie. Quanti sindaci o assistenti sociali si sono preoccupati di fare un censimento, intanto per sapere quante sono?

Una donna, per quanto viva in un territorio emancipato, se poi non esce mai di casa, non sa una parola della lingua del paese, non va a fare la spesa, non sa andare in bicicletta, rappresenta un problema, e non solo per lei.

La radice della violenza maschile contro le donne è uguale dappertutto, semplicemente appare in forme diverse. Oggi il patriarcato non si manifesta come sessant’anni fa in Italia, ma casomai con il volto assunto in Pakistan, e non perché le donne pakistane siano stupide, ma perché tutta l’organizzazione sociale è contro di loro. Allora nel momento in cui io riconosco queste dinamiche, devo adottare delle politiche adeguate.

Poi c'è l’atteggiamento di un certo femminismo; donne che si definiscono vicine alle migranti spesso hanno un approccio teorico, anch’esso legato a degli schemi. C’è un cortocircuito per cui da un lato le femministe raccolgono firme ed espongono le foto delle donne iraniane arrestate perché si tolgono il velo, dall’altro, se una femminista iraniana entra in un dibattito politico con femministe italiane e dice quello che possiamo immaginare, non viene accettata, perché è un’estremista. Ma se io mi metto a fianco di una donna immigrata che vive qua o mi chiedo cosa posso fare, non è che sono contro l’Islam. Semplicemente sto contribuendo a denunciare l’esistenza di un problema. Se la religione non è un problema (cosa che sfido chiunque ad affermare), pensiamo allora alla ragazza italo-marocchina che dieci giorni fa è andata in Marocco da Marsiglia, per far visita alla famiglia ed è stata arrestata e condannata a tre anni e mezzo di carcere perché nel 2019 aveva postato su Facebook un commento in cui definiva un versetto del Corano il “versetto del whisky”.

Il messaggio è che se affermi di essere laica o atea, vieni segnalata e se poi rientri nel tuo paese, potrai essere arrestata, sottoposta a processo e subire una condanna. Questo è un monito tremendo a chi sta in Italia. Qui dovremmo tutte alzare la voce e protestare.

Come intervenire?

Purtroppo esiste un regime di controllo molto pressante, specie per le giovani di Pakistan e Bangladesh. Sono obbligate a sposare cugini di primo grado perché magari la mamma e la sorella della mamma e la cugina hanno a loro volta sposato tre fratelli o cugini di primo grado, per cui si crea un vero e proprio accerchiamento. La rete familiare però non è solo controllo, è anche amore, affetto, sostegno, e per allontanartene devi trovare la forza di rinunciare a tutto questo per poi vivere in un contesto che non è così accogliente, perché chi vorrebbe aiutare spesso non ha gli strumenti.

Cosa accade infatti? La ragazza denuncia e il poliziotto cosa fa? Chiama mamma e papà, rigettandola dentro un circuito di controllo, dove non può fare più nulla. Insomma, oltre alla paura di essere giudicati razzisti, o contro l’Islam, in questo momento abbiamo anche il problema di una grave mancanza di formazione, indispensabile per entrare in contatto con queste ragazze.

All’inizio, anche in Emilia-Romagna era stato creato lo spazio della donna migrante all’interno del consultorio. All’epoca anch’io ero d’accordo, ma oggi penso invece sia preferibile che queste donne stiano in relazione e interagiscano con le altre.

Il fatto è che poi chi lavora in un consultorio quando scopre che la donna non parla italiano, pensa di non poter fare nulla e un po’ rinuncia. Ma la mancanza della lingua del paese dove vivi è già indice della mancanza di un diritto.

Oggi esiste il Codice rosso, diversi casi di matrimoni forzati sono stati denunciati, sono state emesse delle condanne, c’è stato un aumento delle pene, però, ripeto, bisogna lavorare anche sulla formazione. Oggi finalmente il carabiniere o il dirigente scolastico, essendoci una legge, può segnalare e il carabiniere è obbligato a riprendere la denuncia. Bene, ma se poi il carabiniere, l’assistente sociale, l’insegnante non hanno gli strumenti per aiutare queste persone? Se una ragazza, come si è visto con Saman, va in una comunità per minori, troverà un educatore in grado di accoglierla?

Queste ragazze sono accolte in strutture dove ci sono minori con problemi completamente diversi; qui parliamo di adolescenti che stanno andando via dal loro nucleo familiare, che hanno dovuto inventare dei sotterfugi incredibili per poter fare cose che farebbero sorridere un’adolescente italiana, ma che per loro rappresentano conquiste enormi.

Ci sono persone preparate per accoglierle? Il rischio sennò è che il padre o la madre le riaggancino.

I genitori iniziano a chiamare gli assistenti sociali, a dire, ad esempio, che la figlia è sempre stata ribelle, che mente, e poi pregano di consegnarle almeno una lettera per dirle che le vogliono bene. Allora l’assistente sociale cede, ma la lettera spesso non viene tradotta e magari dentro c’è scritto che la mamma sta male. Oppure la convincono a rientrare telefonando. A noi è capitato che dopo un anno e mezzo di ospitalità in assoluta segretezza, una madre si sia presentata bussando alla porta del Centro. C’è una tremenda ramificazione del controllo: abbiamo scoperto che dei ragazzi pakistani giravano attorno alla stazione di Imola con le foto di una delle ragazze.

È tutto molto complicato, però alcune cose si possono fare. Intanto a queste ragazze va detta la verità: fin dove possiamo arrivare nel sostegno e quanto faticoso sarà per loro. Va messa in conto la solitudine, il mancato compleanno, anche la preoccupazione per la sorella a casa che, rimasta sola, magari verrà portata via prima per colpa tua.

Altra questione: a rappresentare le comunità immigrate sono sempre uomini e religiosi. Spicca l’assenza di voci femminili e laiche. Si chiama il saggio, l’imam: nessuna donna, a meno che non sia famosa o una convertita, mai una persona che davvero sappia di cosa si sta parlando.

Papa Francesco ha detto: basta con le violenze contro le donne. Benissimo, ma tu te lo vedi papa Francesco seduto al tavolo insieme alle parlamentari per scrivere la nuova legge sulla violenza alle donne? Certo che no, ma allora perché l’imam viene chiamato a questi tavoli?

Io, per esempio, vorrei che ci interrogassimo sulle ragioni dell'aumento, anche a Bologna, di bambine velate. Sono avvisaglie che non vanno sottovalutate. Noi diamo rifugio alle pochissime donne che scappano da quei sistemi di controllo, che hanno subìto un matrimonio forzato, una mutilazione genitale, che non hanno diritto all’eredità, a cui hanno portato via i figli. Ma bisognerebbe interrogarsi su come nascono queste dinamiche.

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Tiziana Dal Pra è fondatrice di Trama di Terre, un’associazione di donne provenienti da tutto il mondo attiva a Imola dal 1997 con l’obiettivo di accogliere e costruire relazioni tra donne native e migranti e contrastare le discriminazioni e la violenza maschile in tutte le sue forme.