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QT n. 12, dicembre 2020 Servizi

Noi e il Covid

Italiani (e Trentini): bravi nell'emergenza ma poi... Ritardi, errori, furbizie

Alessandro Dal Rì

Angela Merkel lo ha detto chiaramente, suscitando anche qualche polemica: certe misure anti-covid andavano prese prima, ma i cittadini avevano bisogno di vedere i letti di ospedale pieni per accettarle.

Se questo discorso vale in Germania, possiamo immaginare in Italia, dove tutti gli sforzi dell’opposizione sono andati in direzione contraria. Eppure se quello espresso da Merkel può considerarsi un assioma per quanto riguarda le misure restrittive nei confronti della popolazione, lo stesso non vale per tutte quelle cose che, invece, chi amministra avrebbe potuto e dovuto fare in previsione della seconda ondata.

Un’occasione sprecata

Facciamo un passo indietro. A febbraio di quest’anno siamo stati travolti dalla pandemia e le prime fasi sono state contraddistinte, comprensibilmente, dalla confusione e dall’improvvisazione. Stato e Regioni si sono trovate ad affrontare una minaccia sconosciuta a mani quasi nude. Mancavano i reagenti per i tamponi, le mascherine per i cittadini, ma soprattutto un’idea chiara sul comportamento epidemiologico di questo Coronavirus. In uno scenario venuto a delinearsi di sovraccarico del sistema sanitario si scelse, giustamente, il lockdown totale. Analizzando i dati pubblicati dall’ISTAT sul computo totale della mortalità in Italia nel 2020 (vedi il grafico), possiamo vedere chiaramente come quella della chiusura fosse l’unica strada razionale per fermare una potenziale ecatombe.

In realtà, la chiusura totale ha finito per fare di più: ha posto il nostro paese nella condizione, in cui nessun altro degli altri grandi paesi europei era, di riprendere in mano le redini del tracciamento e di rimettere sotto controllo l’espansione del virus nel territorio nazionale, andando a cercare e spegnere i focolai del virus.

Questo vale ancora di più per il nostro Trentino, che a differenza di tante altre regioni italiane ha una demografia limitata, una bassa densità abitativa, insieme con una teoricamente spiccata capacità organizzativa ed alcuni potenti asset (come CIBIO, FBK e FEM) sul proprio territorio.

L’Italia, e il Trentino, hanno sprecato l’opportunità di assestare ulteriori colpi al virus in estate. Nonostante la largamente preannunciata seconda ondata, c’è stato un calo generale della tensione, sia sulla partita del tracciamento, che su quella delle misure minime di contenimento. Così quel vantaggio è stato sperperato e il Trentino, con l’Italia, ha utilizzato il mese di settembre per “rimettersi al pari” con Germania e Francia quanto a grado di diffusione del contagio.

Anche questa volta l’Italia si è comportata come sua abitudine: grande e agitata reazione, pur anche efficace e risolutiva, sia da parte dell’opinione pubblica e che della politica, nel mezzo dell’emergenza.

Passata la buriana, però, ci si dimentica in fretta dei motivi che hanno portato al problema e si ritorna ad una normalità sotto cui inizia a covare indisturbata la tempesta successiva, di cui ci si preoccuperà più avanti. Un modo di fare che ci accompagna sempre: dalle tempeste meteorologiche che comportano dissesti idrogeologici veri e propri a quelle economiche che comportano sconquassi di bilancio e disperati recuperi. Dal “prelievo forzoso” di Amato a Mario Monti. In Trentino, però, ci siamo sempre vantati di essere un po’ diversi: più lungimiranti, più capaci di programmare, più responsabili. Non questa volta.

Del resto in estate, nel panorama italiano, abbiamo potuto constatare quanto importante sarebbe (e sia) avere delle minoranze capaci di incalzare la maggioranza spingendola a fare meglio, invece che a fare peggio.

Se il governo non ha certo brillato per energia, spirito d’iniziativa e capacità di programmazione, chi siede tra i banchi dell’opposizione in parlamento, prima di indignarsi per misure autunnali troppo leggere, ha passato l’estate a lisciare il pelo a tutto il peggio che si muoveva nel panorama italiano: dai no-mask ai gilet arancioni di Pappalardo. Questo ha contribuito non solo a non portare gli amministratori a fare di più, ma a portarli a doversi preoccupare di non fare troppo per non urtare la sensibilità di qualche negazionista. Non il viatico migliore per il Trentino, quindi, dato che chi oggi lo governa di quella opposizione a livello italiano fa parte e che quelle campane quindi le ha sentite fin troppo bene.

Ritardi, errori, furbizie

La doverosa premessa è che fermare una pandemia di questo tipo probabilmente è impossibile, rallentarla difficilissimo e tenerla sotto controllo estremamente complesso. Non per questo possiamo fare a meno di fare una analisi oggettiva su quello che non ha funzionato.

Partiamo dalle cose facili e che sembravano scontate, come la collaborazione con la realtà d’eccellenza che ci ha aiutato non poco durante la prima ondata: il CIBIO.

Dopo la chiusura dei laboratori COVID e il ritorno alle proprie attività, ancora a fine primavera il Centro di Biologia Integrata aveva dato la disponibilità alla Provincia per l’apertura di un laboratorio dedicato all’analisi di tamponi molecolari. Non solo la disponibilità è caduta inspiegabilmente nel vuoto, ma CIBIO è stato lasciato completamente fermo e la Provincia lo ha tirato in ballo solo ad inizio novembre, a seconda ondata ormai quasi al picco, per stringere un accordo per dei test rapidi che per l’assessora Segnana sarebbero arrivati nel giro di un mese, ma che in realtà, ha spiegato il direttore Quattrone, arriveranno a gennaio inoltrato.

Una scelta inspiegabile, che in Provincia cercano goffamente di giustificare sbandierando statistiche in cui il Trentino sarebbe ai vertici nazionali come numero di tamponi effettuati per abitante, quando invece abbiamo malauguratamente sperimentato quanto il nostro territorio si sarebbe potuto giovare di supporto per analizzare più persone. Non solo. Perché a volte si è avuta l’impressione che il problema non fosse soltanto la nostra “potenza di fuoco” nell’analisi dei tamponi.

Fin dall’inizio infatti, la Provincia ha scelto di sottoporre a screening costante, attraverso tampone molecolare settimanale, soltanto operatori sanitari, chi lavora nelle RSA ed alcune altre categorie ritenute a rischio. Il che ha significato rinunciare in partenza ad effettuare un monitoraggio preventivo sull’intera popolazione. Non si capisce fino in fondo se ciò era dovuto ad un deficit della nostra capacità di analisi dei tamponi, a problemi di coordinamento ed organizzazione o ad una scelta di altra natura.

Così come non si capiscono le motivazioni dietro all’inefficienza denunciata da tantissime testimonianze di persone chiamate a fare il tampone di conferma dopo un test rapido positivo con una o due settimane di ritardo. Tanti giorni, troppi, passati dai soggetti in quarantena fiduciaria e dopo i quali, anche se inizialmente positivi, ormai si è negativizzati. Stessa politica con familiari ed amici di una persona positiva. Quarantena fiduciaria e forse APSS che si fa sentire dopo dieci giorni, quando ormai è quasi ovvio risultare negativi. Impossibile capire perciò, in quei casi, chi sia stato un potenziale vettore del virus, quali altre persone possano essere state di conseguenza contagiate a loro volta e, in definitiva, impossibile fare tracciamento e mappatura del contagio. Una gestione “alla buona” in salsa trentina, tutta basata su test rapidi effettuati privatamente “fai da te” e su quarantene fiduciarie auto-inflitte basate sul famoso buon senso. Tutto fuori dai radar di Fugatti e Ruscitti.

Questo, insieme con la strana reticenza - nonostante le numerose sollecitazioni - della Giunta provinciale a divulgare i dati “veri” sui contagiati (cioè quelli con conteggiati anche tutti i positivi ai test rapidi) fa venire forte il sospetto che qualcuno si sia preoccupato più di tenere bassi i numeri ufficiali piuttosto che quelli reali. Una situazione non nuova, dato che ci eravamo cascati anche durante la prima ondata primaverile in cui, molti ricorderanno, da un giorno all’altro il Trentino era passato dal fondo della classifica a territorio tra i più virtuosi sulla mappa nazionale, solo per un cambio nel modo di comunicare i dati.

Del resto basta soffermarsi un attimo sull’analisi dei dati per rendersi conto come il Trentino abbia numeri non coerenti rispetto alle altre regioni italiane. Un’anomalia quasi clamorosa considerando come la curva dei ricoveri e quella delle morti - che purtroppo non mentono - in Trentino sia peggiore che in Italia, mentre quella dei contagi ci vedrebbe messi addirittura meglio.

Conti che non tornano

Fa pensare, in quest’ottica, la reazione di Ruscitti e Fugatti rispetto alla prospettiva di seguire l’Alto Adige sullo screening di tutta la popolazione provinciale, bollato come un’operazione addirittura sbagliata. Le parole, apparse nei giorni scorsi sui giornali, del dirigente del dipartimento Salute della Provincia dipingono i test di massa come inutili perché chi oggi è negativo domani potrebbe essere positivo e il contrario. Una tesi eraclitea che ci ricorda come “tutto scorre”, ma che in realtà somiglia molto più alla brutta copia delle parole di qualche virologo televisivo.

I fatti sono questi: l’Alto Adige, con questa operazione, ha messo in isolamento più di tremila asintomatici positivi che, è stato calcolato, avrebbero potuto condurre, potenzialmente, ad altre decine di migliaia di contagi. Certo, questo non significa che lo screening di massa possa sostituire tutti gli altri strumenti di contenimento del virus, dalle limitazioni al tracciamento, e che quindi dal giorno dopo si possa riaprire tutto. Ma esso rappresenterebbe uno strumento ulteriore ed importante attraverso cui abbattere sensibilmente, in un solo colpo, il famoso Rt, l’indice di contagio, e appiattire la curva. Un ragionamento, questo, che varrebbe in una situazione normale, ma forse non qui da noi. Perché se la curva, come nel caso di quella trentina, è già “a posto” e accuratamente sistemata, una operazione per scovare positivi rischierebbe sì di combattere efficacemente il contagio, ma al costo di far venire fuori ancora più clamorosamente tutte le incongruenze dei nostri numeri. Un rischio che evidentemente non si vuole correre.