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Fuori dall’anoressia

Le riflessioni di una ragazza sul percorso terapeutico che l’ha portata a guarire dall’anoressia. Da “Una Città, mensile di Forlì”.

A.M., Amalia Campagna

Io sono stata presa in carico e curata in una struttura pubblica di Portogruaro specializzata nella cura dei disturbi alimentari che funziona con un’équipe di medici. Il paziente può essere seguito sia ambulatorialmente, come nel mio caso, sia, nei casi più gravi, essere ricoverato per un periodo più o meno lungo all’interno della struttura.

L’équipe è formata essenzialmente dallo psichiatra, il medico di riferimento che fa anche il primo colloquio con la paziente (si tratta di ragazze nel 90% dei casi), da un dietista e da un altro medico, psicologo o psichiatra, perché il medico di riferimento solitamente gestisce dall’alto, piuttosto che seguire le persone, specie se è un percorso lungo. Quando sono andata io c’erano tre dietisti e tre psichiatri a occuparsi dei pazienti. Io sono stata seguita da maggio 2014 fino alla maturità, a luglio 2016.

All’inizio, avevo deciso insieme ai miei genitori che avremmo provato a gestire la parte della dieta privatamente, quindi ci eravamo rivolti al mio medico di base, che mi conosceva già e che operava a Venezia dove era più agevole per me fare i controlli. Ma non ha funzionato: ho perso ulteriore peso, perché, pur essendo un dietista, in fondo aveva a che fare con una normale paziente che si rivolgeva a lui per una dieta dimagrante. Da parte sua non c’era quell’attenzione, quell’occhio da specialista. Cosa che invece ho trovato nella struttura, perché lì anche i dietisti sapevano con chi avevano a che fare, conoscevano i meccanismi mentali. Quindi mi sono trovata molto bene.

La struttura accoglieva una quindicina di ragazze alla volta e il tempo medio di permanenza era dai tre ai sei mesi. So che molte ragazze si sono fatte più di un periodo.

La parte più difficile del percorso è quando esci dalla comunità, perché, per quanto quello che passi lì dentro sia un periodo molto duro, riabituarsi al mondo esterno è peggio.

Da casa quindi sono stata seguita a livello ambulatoriale: andavo praticamente una volta ogni tre settimane, in alcuni periodi ogni due, ma in altri anche ogni mese. C’era la visita dal dietista e dallo psichiatra.

Anima e corpo

Le cause dell’anoressia non sono chiarissime. La causa scatenante tante volte non si identifica, anche perché probabilmente non ce n’è una sola. Però essendo meccanismi che influenzano diversi aspetti della vita (l’alimentazione è solo uno di questi), con lo psichiatra hai la possibilità di affrontare molti argomenti: io parlavo molto della scuola, del rapporto con gli altri in generale, di ansie varie. Invece, dal dietista ti devi pesare, ha un piano alimentare, devi redigere il diario alimentare, cioè segnare giorno per giorno quello che hai mangiato... ed è un bel peso. È molto difficile rispettare il piano alimentare e quando vai lì e lui vede che non l’hai seguito ti becchi il cazziatone… È un po’ pesante...

I punti di forza di questa struttura consistono nel dare predominanza al lato psicologico. Il primo incontro è con lo psichiatra; non c’è un approccio ospedaliero, tipo che ti attaccano alla flebo... Almeno è questo che ho vissuto io, anche perché non sono arrivata lì che pesavo 30 chili, non ero un caso gravissimo, tant’è che non mi hanno ricoverata.

Si punta molto sulla presa di coscienza da parte del paziente, sul capire che il problema c’è e va affrontato e ovviamente sulla volontà di guarire.

So che in tanti centri il percorso di guarigione non funziona perché il paziente viene ricoverato e poi dimesso quando ha solamente recuperato il peso, senza che questo percorso venga affrontato dal punto di vista mentale: hai ripreso peso, bene, finito. Poi succede che una volta uscita dall’ospedale ci ricadi subito.

Nella struttura viene trattata sì la parte fisica, e con molta professionalità, ma è una cosa che avviene successivamente, prima di tutto ti seguono dal punto di vista psicologico. Sono rimasta colpita dal fatto che lo psichiatra di riferimento sapesse esattamente quali punti toccare, quali parole usare. La prima volta che sono andata lì, anche se non mi aveva mai visto, in un’ora di chiacchierata semplicemente su come stavo, come mi sentivo, che pensieri avevo, aveva chiaro il quadro. E io ho sentito che aveva capito tutto. Non so, ho avuto un particolare feeling positivo con quello psichiatra.

L’anoressia è una condizione che coinvolge molto anche chi sta vicino alla persona malata, influenza tantissimo il rapporto con la famiglia, soprattutto nella fase iniziale. Tanto è vero che lì c’è un gruppo di sostegno per i genitori, con incontri di sostegno solamente per loro, sia di quelli ricoverati, sia di quelli seguiti ambulatorialmente. Perché il clima che si crea in casa è inevitabilmente pesante, a volte molto conflittuale.

I genitori sono le persone che più hanno a che fare con la persona in terapia, dunque sono molto coinvolti dal punto di vista emotivo e personale; inoltre, hanno spesso la responsabilità della cura quotidiana, che senza un supporto esterno è difficile da portare avanti.

Il sostegno della famiglia è fondamentale: da soli è difficile, quindi è importante anche che i genitori capiscano la malattia. Ovviamente un genitore vede che il figlio non mangia, che deperisce, ma non è scontato capire cosa sta succedendo, e a me è successo che non capissero. Nonostante l’amore e l’affetto, non è semplice rendersi conto delle esigenze del figlio. Tranne i casi estremi, è abbastanza difficile accorgersene. Una ragazza magari sembra normale, non particolarmente magra, a volte può essere affetta da questa malattia; al contrario, non è detto che una ragazza molto magra lo sia; molti sono magri di costituzione. E proprio perché non è una condizione evidente, certe volte si ha la tendenza a sottovalutarla.

La ricerca di controllo

Un meccanismo mentale che ricorre sempre nell’anoressia, è l’ossessività, una ricerca di controllo in ogni ambito della vita, non solo del cibo, soprattutto per gli aspetti ritenuti importanti: per me c’era lo studio. Essendo allora una studentessa di liceo, avevo delle ansie che riuscivo a calmare solo gestendo rigorosamente la mia quotidianità nello studio.

La conseguenza è che abbandoni gli altri ambiti, sopratutto la socialità: non riesci più a concederti dei momenti di svago, tutto viene vissuto come una perdita di controllo. È una spirale che ti risucchia, non c’è scampo.

Questa ossessione si sviluppa attorno al cibo forse perché, volendo avere il controllo su ogni aspetto di se stessi, l’aspetto fisico è quello più governabile, nel senso che hai a che fare col cibo tutti i giorni, e tutti i giorni ti porti in giro il tuo corpo, che è la parte più visibile di te.

Quello che fa scattare il problema è una ricerca di adeguatezza rispetto a certi canoni. Si vuole, appunto, raggiungere una perfezione e questo concetto di perfezione naturalmente viene influenzato dal contesto culturale, sociale. All’inizio uno esercita una forma di controllo sul cibo perché vuole sentirsi più bello, però poi la cosa va oltre.

Come informare?

Per sensibilizzare chi non conosce questa malattia inevitabilmente si utilizzano delle immagini forti. Forse è una questione di marketing: ad esempio, una campagna contro la fame in Africa mostra il bambino denutrito, anche se poi la povertà in Africa non riguarda solo i bambini.

Non mi vengono in mente altri metodi per attirare l’attenzione su questo problema. Però questo rischia di aumentare lo stereotipo che si tratti di ragazzine capricciose influenzate dalla cultura della top model supermagra, e così influenzabili da ricaderci ossessivamente, e di non mettere a fuoco il vero problema, di cui il deperimento fisico è solo la conseguenza, e cioè la presenza di una malattia mentale potenzialmente mortale. Si dovrebbe trovare un modo di far capire questo.

D’altronde l’aspetto fisico, attirando di più l’attenzione, impedisce che la malattia venga gestita tutta nel privato, in una situazione in cui chi ne soffre tende già a isolarsi.

Questa esperienza mi ha reso più consapevole del ruolo della sanità pubblica. Mi ha fatto toccare con mano l’importanza di centri come questo, perché, essendo una malattia non troppo visibile, ma anche potenzialmente letale, è importante che quelli che ne soffrono abbiano la possibilità di essere curati. Essere seguiti privatamente costa tantissimo e non tutti se lo possono permettere, perché è un percorso lungo, di anni. Il percorso psicologico, poi, va portato avanti ancora più a lungo di quello fisico. Anche quando sei fuori pericolo da quel punto di vista, la terapia con lo psichiatra va continuata e quindi è importante che si aprano sempre più centri pubblici.

So che recentemente ne hanno aperto uno a Venezia: se ci fosse stato ai miei tempi sarebbe stato ancora meglio. Non essere costretti a trasferirsi per seguire il percorso terapeutico è un bel vantaggio: già si tende a essere isolati, ad avere difficoltà con la socialità; se poi perdi anche quei pochi rapporti e ti allontani dall’ambito familiare perché per curarti devi andare lontano, tutto si complica e il ritorno a casa diventa ancora più difficile, perché non hai un contatto diretto e veloce con i medici curanti. Il paziente prima di essere malato è una persona, con i suoi rapporti, la sua vita, quindi sradicarlo lo fa sentire ancora più malato, fa coincidere il malato con la malattia, invece è importante che rimanga il contatto con la sua vita.

Nella mia classe del liceo eravamo addirittura in quattro a soffrire di anoressia. Quindi altre tre ragazze che conosco da anni ne stanno soffrendo o ne hanno sofferto in momenti che hanno più o meno coinciso col mio. Con due di loro ho avuto la possibilità di confrontarmi. Sapere che non sei da sola, che qualcun altro ha passato le stesse cose che vivi tu, che le cose che provi hanno un nome e se ne può uscire, aiuta.

Ho saputo che la fascia d’età media si sta abbassando: ci sono sempre più ragazzine, anche di 11-12 anni, e lì il fattore fisico è ancora più grave e accentuato.