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QT n. 4, aprile 2021 Servizi

Non demorde la lotta leghista alla solidarietà

La PAT cambia rotta sulla chiusura della Residenza Fersina, prima annunciata e poi rimandata. L’opinione degli enti che sostengono il progetto alternativo di accoglienza in piccole strutture

Centro Astalli

La Residenza Fersina è un luogo come ce ne sono tanti, in Italia: una caserma dismessa della città di Trento che, nel 2016, va in soccorso al sovraffollato campo di Marco di Rovereto per l’accoglienza dei migranti forzati, che quell’anno arrivano in Trentino in grandi numeri soprattutto attraverso la rotta mediterranea.

Negli anni successivi, con i suoi 250 posti disponibili, la Fersina vive momenti di piena, in cui è necessario addirittura aggiungere un mucchio di container all’esterno, poco più alti di un uomo e molto stretti, perché i posti letto non bastano. Vive però anche momenti di vuoto, coincidenti con la stretta nazionale e locale agli arrivi, fino ad ad ospitare 120 persone, come in questi giorni. In questi cinque anni passano molti volti in questo luogo e chi lo frequenta per lavoro, per volontariato, o semplicemente per partecipare a una delle attività culturali (teatro, musica, conversazioni), ascolta tante storie di sofferenza e di riscatto.

La Residenza Fersina è un luogo come tanti altri, in Italia, perché la cosiddetta emergenza immigrazione, che dura ormai da più di un decennio, è gestita quasi esclusivamente come un evento straordinario e improvviso, a cui rispondere con soluzioni di breve periodo. Per questo, di residenze Fersina ne sono spuntate tante, dal 2015 ad oggi. Le si è chiamate hub di prima accoglienza per dare loro un tono, ma nella sostanza sono rimasti luoghi anonimi pensati per altre funzioni in cui i migranti, in fuga dal proprio paese e in cerca di un po’ di pace, stazionano per un tempo indefinito in attesa di ottenere la protezione internazionale, primo passo per l’integrazione.

Nel 2018 e nel 2019, con l’approvazione delle Leggi Sicurezza (i cosiddetti Decreti Salvini) e il cambio radicale di umore nel Paese verso il tema immigrazione, il quadro è cambiato ancora: si è fatta una indistinta lotta all’accoglienza, mettendo sullo stesso piano le mafie interessate solo a lucrare e le organizzazioni che, insieme alle comunità in cui sono radicate, portano avanti progetti di inclusione sociale per i rifugiati. Si è raccontato, solo raccontato, che le frontiere erano chiuse e che nessuno sarebbe più partito dal suo paese.

Negli stessi anni, a livello locale, la nuova giunta provinciale si è messa in scia della regata nazionale e prima ha rinunciato ai fondi europei destinati all’integrazione e già assegnati al nostro territorio, poi ha disposto il taglio di tutti i servizi considerati non essenziali all’integrazione (i corsi di italiano, l’orientamento al lavoro e alla formazione, il lavoro di comunità, il supporto psicologico per i più fragili, ecc.). Questo ha trasformato la Fersina in un parcheggio, in cui operatori e volontari hanno continuato ostinatamente a garantire l’accoglienza, in tutte le forme possibili.

Ma come ci si può integrare se si vive in un posto incorniciato dal filo spinato, con altre centinaia di persone che provano a riscattare la propria vita e quella della famiglia in patria? Come ci si può integrare in un posto del genere quando vengono eliminati perfino tutti quelli che quel luogo l’hanno frequentato, professionisti, volontari, cittadini, chiunque insomma sia venuto a portare sostegno, servizi, vicinanza?

La nostra visione

Non si può. È impossibile. Noi del Centro Astalli Trento-Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati lo abbiamo sempre pensato. Per noi, accogliere diventa un verbo vuoto se non si lavora all’integrazione, se non si tessono relazioni tra chi arriva da lontano e la comunità che accoglie.

È per questo che, dal 1999, quando padre Giovanni Fantola apriva per la prima volta un appartamento a Roncafort ai rifugiati in arrivo da Roma alla ricerca di un posto di lavoro, abbiamo dato la priorità alla costruzione di una rete sociale, familiare, affettiva ai migranti forzati che arrivano in Trentino. Da quel giorno di più di vent’anni fa i richiedenti asilo e i rifugiati che abbiamo accolto sono cresciuti in numero e il territorio su cui lavoriamo si è espanso dalla città alle valli trentine, ma il nostro obiettivo non è mai cambiato.

Crediamo nell’accoglienza diffusa: appartamenti a misura d’uomo e non grandi strutture, sparsi su un territorio ampio perché sia più facile creare una relazione di conoscenza e di vicinato con chi abita intorno. In questi luoghi, molto più semplici da percepire come un’abitazione, gli ospiti possono ricostruire una quotidianità basata sulle faccende, sulla cucina, sull’accudire i propri figli, sulla relazione con i vicini. Così anche chi ha lasciato il conforto del proprio paese di nascita può riacquistare un senso di casa e di appartenenza.

Crediamo nel fornire ai migranti dei servizi, perché due muri e un tetto non sono sufficienti per essere accolti in un nuovo paese, bisogna anche che qualcuno ti porga gli strumenti per comprendere la società intorno a te. Per questo, indipendentemente dal taglio dei fondi ministeriali, abbiamo trovato delle soluzioni per fornire ai nostri ospiti percorsi di facilitazione linguistica per l’apprendimento dell’italiano, spazi di supporto psicologico e sociale per rispondere ai traumi generati dalla migrazione e dall’adattamento a una nuova realtà, consulenze legali per richiedere la protezione internazionale e accedere ai propri diritti. Ci siamo affiancati a loro avviando percorsi di valorizzazione delle competenze professionali e di orientamento al lavoro e alla formazione, e creando momenti e occasioni di incontro e scambio con la comunità per rafforzare un legame nel quale tutti, trentini e migranti, si arricchiscono gli uni grazie agli altri.

Tutto questo non l’abbiamo fatto da soli. L’abbiamo fatto all’interno di una grande rete, costruita giorno dopo giorno con tanti altri enti che si occupano di migranti sul territorio, con la Diocesi e con gli ordini religiosi che hanno aperto le porte dei loro spazi per accogliere i rifugiati. Perché tutti questi enti condividono un valore profondo: che una comunità che si accorge di chi è più debole e se ne prende cura è più solida e solidale. Così è nato il progetto di accoglienza Una Comunità Intera, di cui facciamo orgogliosamente parte.

Ma la nostra rete non si ferma qui. È una rete che comprende i Comuni, le Comunità di Valle, l’Azienda Sanitaria e tante istituzioni che offrono servizi ai cittadini stranieri e ai trentini. Comprende i nostri volontari, i nostri donatori, tutte le persone che ci offrono il loro tempo e la loro fiducia, perché credono in quel valore di comunità solida e solidale in cui crediamo noi.

Perché il Trentino

E che ci credano non è un caso. Non è un caso che questo esperimento di accoglienza di comunità sia nato in una terra come il Trentino. Perché questa è una terra intrinsecamente solidale. Una terra che conosce il dramma della migrazione, dello sradicamento dal proprio territorio, ma che ha anche una lunga storia di accoglienza. Insomma, un luogo che conosce entrambi i lati di questo fenomeno complesso.

La comunità trentina per decenni è stata esempio di generosità e di dialogo, tramite i suoi progetti di cooperazione nei paesi più sfortunati, come nello sviluppo di reti di mutuo aiuto e sostegno sui propri territori. Ad oggi, però, questa lunga storia di vicinanza e comunicazione sembra essersi interrotta. Prevale una politica dura e contraddittoria, che spesso privilegia soluzioni di breve periodo, che sembrano più scelte per soddisfare la frustrazione dei cittadini che per trovare reali modi per risolvere insieme complessi problemi sociali.

In questa cornice, e mai a prescindere da questi valori, si inserisce una sequenza di fatti che ha segnato duramente il nostro percorso. Negli ultimi mesi del 2020 l’amministrazione provinciale decide e delibera la graduale e definitiva chiusura della Residenza Fersina, con il conseguente trasferimento dei migranti lì accolti nei progetti già attivi sul territorio, tra cui quelli su cui noi operiamo da anni.

Ci attiviamo, insieme a tutte le reti per realizzare questo obiettivo che ci rende felici di poter chiudere un’esperienza di quel tipo e poi, d’improvviso, un cambio netto di rotta: la Provincia torna indietro sui suoi passi e proroga di 6 mesi l’accordo con la Croce Rossa, che gestisce la residenza, per mantenere lo status quo. Una scelta perentoria, calata dall’alto senza nessuna possibilità di dialogo, è un attacco al clima di collaborazione che dovrebbe regnare all’interno della cosa pubblica. Seguono diverse richieste di incontro per riaprire un dialogo interrotto, una presa di posizione ferma da parte di tutti gli ordini religiosi, dalla Fondazione sant’Ignazio ai padri comboniani, dehoniani, cappuccini e alle suore canossiane (vedi il loro intervento a pag. 43, n.d.r.). La risposta è il silenzio, un silenzio assordante.

E quello che è peggio, è che si tratta di un tradimento verso coloro che dentro alla Residenza Fersina sono in attesa da anni di poter cominciare un percorso di integrazione.

Chi soffrirà maggiormente di questo cambio di rotta improvviso, infatti, saranno proprio i migranti, ma non illudiamoci che questa non sia una sconfitta per la comunità intera. Non solo per la città di Trento, che vede permanere una grande struttura malsana e difficilmente gestibile durante questo periodo di pandemia. Non solo per gli enti che, in accordo con la Provincia, avevano dato il via a trasferimenti verso strutture più adeguate e più sicure. Ma per tutti i cittadini trentini, che si trovano in balia di una politica che rinuncia al suo fulcro, il dialogo, e che sembra non avere a cuore i diritti di nessuno.