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QT n. 7, luglio 2021 Servizi

Se questo è un bluff

Raffaello e Botticelli al Mart: i curatori delle mostre ribattono alla nostra recensione

Beatrice Avanzi, Denis Isaia

Non un bluff, un asso nella manica

È un bluff o un asso nella manica? I numeri dicono che Caravaggio (pur castrato dalla pandemia), Botticelli e Raffaello siano l’asso che il Presidente Sgarbi ha sfilato dalla manica riuscendo a portare a Rovereto dei capolavori di ogni tempo. L’effetto è sotto gli occhi di tutti: rinnovata vitalità, code e volano economico ripristinato. Poca cosa? Non diremmo.

Nel loro articolo Stefano Zanella ed Ettore Paris se ne disinteressano e puntano il dito altrove, sulla qualità culturale: “Il Mart di Sgarbi è culturalmente vuoto”, dicono. Proviamo a capire meglio.

Intanto Botticelli. È vero, la parte antica della mostra circùita dal 2016 (Giappone, Stati Uniti, Hong Kong). Ma a Rovereto abbiamo fatto le cose a modo nostro. La cura che abbiamo messo nel catalogo ha dato l’opportunità al prof. Alessandro Cecchi – uno dei massimi esperti di Botticelli al mondo – di cambiare la data di realizzazione di alcune tra le opere esposte (si vedano la Venere della Sabauda, il Pollaiolo del Bardini, il Compianto sul Cristo morto del Poldi Pezzoli). Per alcuni studiosi se non è una rivoluzione, poco ci manca.

Quanto alla mancanza in mostra dei capolavori di Botticelli come la Primavera o la Nascita di Venere, pretendere che quelle due tele lascino le sale degli Uffizi equivale a pensare di poter ottenere il prestito della Gioconda dal Louvre.

Torniamo quindi a parlare di fatti reali, come la mostra Botticelli Reimagined ospitata dal Victoria and Albert di Londra nel 2016 che dimostrerebbe la scarsa originalità del nostro progetto. Botticelli Reimagined è stata per noi un riferimento, infatti abbiamo provato a correggerne le carenze. I londinesi non si erano accorti che i primi artisti pop a parlare di Botticelli sono stati Ceroli, Fioroni e Tacchi che vivevano a Roma e non a New York o a Londra. Così come viveva a Milano Rosa Genoni, pioniera del recupero di Botticelli nella moda, oggi figura internazionale, di cui non c’era traccia nelle sale del Victoria and Albert Museum. Negli stessi spazi i curatori non avevano messo a fuoco la centralità della figura della Venere nel dibattito sulla bellezza contemporanea. Invece noi sul tema abbiamo insistito. E oggi che i canoni sono felicemente plurali la Venere è extra-large, extra-slim o anoressica. Ma è anche una prostituita etiope, un maschio o un trans. Non è forse cultura questa?

Passiamo a Raffaello. Per quanto riguarda i prestiti, vale lo stesso concetto di inamovibilità dei massimi capolavori espresso per Botticelli. L’Autoritratto di Raffaello – prestito possibile perché opera non inamovibile e non identitaria degli Uffizi (categoria appena sotto quella degli “inamovibili”) – è in mostra. E in dialogo con questo, due autoritratti di de Chirico e Dalí, che non vanno, però, “per la loro strada”. L’Autoritratto con collo raffaellesco di Dalí è stato dipinto dal pittore catalano per desiderio di emulazione, come dice il titolo. L’Autoritratto di de Chirico è stato realizzato imitando quella tecnica che egli aveva appreso copiando le opere di Raffaello a Firenze. Manca, è vero, un autoritratto di Picasso, ma per un motivo ben preciso: esistono soltanto tre opere che avrebbero potuto essere accostate a Raffaello: in tempo di pandemia, i prestatori non hanno voluto separarsene. Se avessimo esposto autoritratti di altre epoche e stili, saremmo venuti meno alla coerenza scientifica della mostra.

L’esposizione è ricca di prestiti (chi può vantare oggi in Italia dieci opere concesse dal Musée Picasso di Parigi?) e di collaborazioni internazionali. Ad esempio, il contestato quadro I primi comunicandi ci è stato suggerito dal Presidente del Musée Picasso, Laurent Le Bon, poiché vi ravvisava l’influsso stilistico di Raffaello. Così come Laurence des Cars (da poco nominata presidente del Louvre), ha concesso la Femme au chapeau blanc di Picasso, indicato come ritratto di chiaro influsso raffaellesco. Se ad alcuni possono parere “accostamenti improbabili”, noi preferiamo pensare, come questi professionisti, che avanzare ipotesi inattese risponda ai compiti più alti di una mostra.

Infine, oltre a tre opere autografe di Raffaello, la mostra presenterebbe “solo copie, queste ultime anche scadenti”. Non possono essere definite scadenti opere unanimemente ritenute di altissima qualità: tra queste, la Fornarina eseguita da un allievo di Raffaello, Raffaellino del Colle, che lo affiancò nella realizzazione delle Stanze Vaticane. Non una copia qualsiasi, ma un’opera di straordinaria bellezza, normalmente esposta nella collezione permanente della Galleria Borghese e oggi a Rovereto.

Non si dica quindi che il Mart non produce cultura. La ricetta vincente del Museo è sempre la stessa, dai tempi dell’apertura in avanti. Grandi mostre e grande cultura. Buone idee e grandi progetti. Insieme.

Beatrice Avanzi e Denis Isaia

* * *

Cultura e operazioni acchiappa-turisti

Ringraziamo i curatori per la cortesia della loro replica, che può essere produttiva; come pure produttivo riteniamo l’obiettivo del Mart di rivolgersi direttamente ai nostri lettori attraverso messaggi pubblicitari sulle nostre stesse pagine (vedi alle pagine 41-43). È un approccio mille miglia lontano dai furibondi eppur insulsi dibattiti a base di insulti.

Ma veniamo al merito. I nostri interlocutori ci informano che la mancanza in mostra delle tele di Raffaello e Botticelli oggetto della mostra stessa (!) è ineluttabile, mai gli Uffizi o altri potrebbero prestare tali capolavori. Appunto, così confermano il nostro titolo: la mostra è un bluff. Forse tra i compiti dei direttori/presidenti di un museo c’è quello, vissuto come prioritario, di attirare visitatori e turisti, anche a costo di forzare la comunicazione. Noi non concordiamo, e in ogni caso compito nostro è di svelarli, i bluff.

C’è poi un punto nella nostra critica che più riguarda il tema stesso dell’esposizione: il presunto “dialogo” tra Raffaello e i pittori del Novecento. Che purtroppo risulta solo enunciato: le opere esposte non dimostrano tali collegamenti, che rimangono solo a vaghe parole evocati. Non basta che Dalì citi Raffaello in un suo titolo, se poi non si riesce a portarne in mostra le opere che potrebbero confermare questo rapporto. E non ci si può nemmeno trincerare dietro la non dimostrata opinione di qualche presidente di un grande museo, che concede qualche opera di Picasso avente, secondo lui, attinenza col tema. Tema che forse non appassiona questi presidenti, se poi alla prova dei fatti si rifiutano di far arrivare al Mart (pandemia o non pandemia) l’autoritratto di Picasso già stampato nel catalogo e in bella mostra in copertina. Non ci azzardiamo a dire che la pensino come noi (cioè che i quattro autoritratti - Raffaello, Dalì, De Chirico, Picasso - vanno ciascuno per la propria strada), di sicuro questi accostamenti non li trovano significativi.

Non è dunque la qualità delle opere in sé – nemmeno della copia antica della Fornarina, sulla quale concordiamo coi curatori, mentre sulle altre copie stendiamo qui un pietoso velo – a fondare la nostra critica: se si volevano esporre queste stesse opere dei maestri del Novecento, o le copie antiche di Raffaello, si poteva fare; senza però imbastire surrettiziamente l’esistenza di un “dialogo”, che appare soprattutto un modo facile e furbo per cercare di aumentare l’audience.

Invece, nel caso di Botticelli, abbiamo riconosciuto che la mostra patisce meno della contraddizione di cui sopra. Abbiamo posto soprattutto un’altra questione: il recupero – per quanto aggiornato e perfezionato dal lavoro dei curatori Alessandro Cecchi per la parte antica e Denis Isaia per la contemporanea – di mostre già circolate anni addietro, in funzione di un “dibattito sulla bellezza contemporanea” – tema amplissimo – riesce a segnare un momento di produzione culturale non diciamo “originale”, ma di una qualche rilevanza?

Perché questo è il tema che ci sta a cuore. Il Mart è un promotore di furbe operazioni, oppure un produttore di cultura?

Per rispondere appieno a questa domanda, dovremmo anche vedere come dal Museo (che si dice di Arte Contemporanea) viene affrontata proprio l’arte contemporanea, al di là del ruolo ancillare di commentatrice delle opere del passato. Ma questo richiederà un discorso più approfondito..

Ettore Paris e Stefano Zanella

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In altri numeri:
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