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QT n. 9, settembre 2021 Monitor: Mostre

Come ti reinvento uno spazio chiuso

“Camera Picta“ Trento, Galleria Civica, fino al 12 settembre

L’idea di trasformare uno spazio chiuso dipingendone le pareti è un impulso che accompagna gli uomini in tutto il corso della loro storia, a partire dalla loro preistoria (la grotta di Lascaux), come ci ricorda Federico Mazzonelli, curatore con Margherita de Pilati e Gabriele Lorenzoni di questo progetto che si sviluppa nei locali della Galleria Civica di Trento, ma ha un suo momento anche al Castello del Buonconsiglio. Dove un pittore, Francesco De Grandi (Palermo, 1968) è stato chiamato – diciamo - così a reinventarsi il mese di marzo, mancante, del famoso Ciclo di Torre dell’Aquila, capolavoro quattrocentesco del gotico internazionale.

Il Ciclo dei Mesi appare in questo percorso qualcosa di più di un pretesto, ma anche qualcosa meno di un termine di confronto diretto. Più di un pretesto, perché è uno dei più illustri precedenti storici di quella spinta alla reinvenzione di un ambiente architettonico con gli strumenti dell’arte visiva, che sta ben dentro il percorso di ciascuno degli artisti qui presenti.

D’altra parte nessuno di loro pensa di misurarsi direttamente con la visione, il linguaggio, gli intenti di quell’antica narrazione affrescata. o stesso Francesco De Grandi, con la sua pittura densa di dissimulate stratificazioni simboliche, astorica, usa forme realiste ma veicola una dimensione già esterna alla pur rigogliosa natura e alla realtà ordinaria. In una parola, c’è più mitologia e mistero nel suo dipinto che in quelli del maestro dei Mesi, che si sviluppano su tutt’altro piano e, pur concepiti per il diletto e l’autocelebrazione del Principe (vescovo), sono arrivati a noi come documento antropologico della società cortese e del lavoro contadino.

Ma è negli ambienti della Galleria Civica che vediamo in opera lo specifico di questa operazione, cioè alcuni modi contemporanei di trasformare (la percezione di) uno spazio. Con visioni, urgenze, strumenti linguistici anche molto divergenti. Uno stesso oggetto, una colonna, assume per esempio in Francesco Arena (Torre Santa Susanna, Brindisi, 1978) il significato di unità di misura (posta non a caso nel cortile, stanza a cielo aperto): l’altezza del proprio corpo come ennesima parte della distanza dallo “spazio”, e dal centro della terra: un approccio matematico, tutto rigore e cervello, al nostro stare nel mondo. Al contrario, quel medesimo elemento architettonico diventa per Benni Bosetto (Milano, 1987) il perno totemico, albero della fertilità e della cuccagna, intorno al quale una raggiera di cordoni delinea uno spazio adatto al rito collettivo, cioè qualcosa che nella visione di questa artista è stato bandito dalla frammentazione della società neo-libertista.

Un altro contrasto si nota, ad esempio, nell’uso dei mezzi espressivi. Un’elegante economia di mezzi in Stefano Arienti (Asola, 1961): teli bianchi di quelli antipolvere da cantiere, a rivestire i muri (memoria degli antichi arazzi?) sui quali disegnare a pennello in vernice dorata gli alberi di un giardino: il materiale ordinario di oggi e il colore dell’antica arte sacra.

All’opposto, in Andrea Mastrovito (Bergamo, 1978) un uso alquanto ridondante di mezzi: box illuminati rivestiti di righelli, sui quali disegnare una lunga narrazione, con riferimenti letterari e alla “Melancolia” di Dürer.

Tra tutti, Federico Petrella (Roma, 1973) pare il più spaesato in questo contesto perché, producendo quadri, non si pone il problema di intervenire sulla percezione dello spazio dello spettatore, e peraltro il suo disegnare con timbri datari sembra piuttosto giocare sottilmente con la dimensione del tempo.

Esther Stocker (Silandro, 1974) usa una grammatica che pare tratta dall’arte optical, ma orientata a produrre un disorientamento percettivo più globale, che modifica incisivamente, e pone anche qualche apparente inciampo, nello spazio che percorriamo.

Alessandro Piangiamore (Enna, 1976) decide di operare sul pavimento, cospargendo polveri di diverso colore, come ampie macchie, o nuvole, che ci immettono in una dimensione primordiale (come del resto i calchi di foglie inevitabilmente associabili ai reperti fossili), il che in qualche modo ci riporta a quelle grotte di Lascaux che sono il primo esempio conosciuto di reinvenzione di uno spazio chiuso.ed efficace nella nostra città dell’epoca.

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