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QT n. 12, dicembre 2023 Seconda cover

Quelli della Sloi

Dalle baracche alla strada: chi sono i disperati che vivevano fra le rovine della fabbrica dei veleni.

Michele Cagnazzo

Berisha ha continuato a spostare la lingua da un lato all’altro della bocca guardando fisso verso Teresa, velocemente, per tutto il tempo in cui abbiamo parlato. Era girato a tre quarti, vestiva una maglietta logora di una ditta di noleggi e un pantalone da lavoro impolverato. Sono quarant’anni che è in Italia, è kosovaro, ha vissuto prima in Sicilia, e come si sta a Catania – ci tiene a dirmi – non si sta in nessun’altra città.

Siamo seduti a tavola, quattro chilometri a nord del centro di Trento, a sud dell’edificio centrale della SLOI, una fabbrica che per almeno trent’anni ha prodotto piombo tetraetile. Tra noi e la recinzione esterna, da cui riemerge l’intelaiatura di cemento armato, c’è un bosco disordinato, nato sul terreno contaminato.

La fabbrica chiuse nel 1978, dopo un incendio innescato dal contatto fra trecento tonnellate di sodio e l’acqua. Nel 2013 sono iniziati i lavori di bonifica e in piedi rimangono solo la torre piezometrica, lo scheletro del palazzo centrale e un largo piazzale asfaltato dove ancora si intravedono le fondamenta delle mura. Costruirono la SLOI a Campo Trentino, a una ragionevole distanza dall’abitato; solo negli anni Quaranta l’ampliamento del quartiere Cristo Re, per ospitare i nuovi operai, portò alla collaterale inclusione nel tessuto urbano della fabbrica. Da qualche anno ormai, per circa dieci mesi, ciò che rimane della SLOI si trasforma in un vero e proprio accampamento.

Berisha è fra coloro che gravitano attorno a questa comunità parallela: non vive qui ma, quando recupera del materiale di scarto in più, fa sempre un salto per capire se possa servire qualcosa agli abitanti dell’ex fabbrica. Non è particolarmente simpatico: senza guardarmi, continuando a parlare, ha preso un foglio dalla scatola di cartone rovesciata che ci fa da tavolo, lo ha spiegazzato e ne ha fatto scorrere i lati ripiegati uno contro l’altro, sempre guardando Teresa.

Non ti arrabbiare - mi ha detto -, tu che sei cristiano, ma noi nasciamo tutti musulmani, siete voi quelli che poi battezzano i bambini che ancora non capiscono e li convertite alla vostra fede”. Ha aggiunto che siamo tutti uguali di fronte a Dio, è il peccato ad allontanarci da lui per poi gettarci fra le fiamme. Lo ha detto indicando il fuoco alle nostre spalle, alimentato con il legno ricavato da tutto ciò che trovano intorno a loro: frammenti di bancali, imbottiture di poltrone per signore ormai sparite, plastica, flaconi vuoti.

Mi ha chiesto una sigaretta e gliel’ho offerta volentieri: cinque mesi fa avremmo avuto in tasca lo stesso tabacco, fino a quando - me lo dice indicando sul braccio destro il punto dove hanno inserito l’ago cannula - ha avuto un infarto. Qui alla SLOI fumano tutti, fuma Crina, fuma il suo compagno e fuma anche suo figlio.

Crina

Crina è seduta davanti a me, non sa né leggere né scrivere, è l’ultima di otto figli, orfana di padre da quando aveva quattro anni. Per due o tre mesi l’anno vive in una delle città che recano nel nome le ultime tracce del passato romano della Romania: Alba Julia. Ha avuto la prima figlia a tredici anni, ne aveva quattordici quando ha iniziato a fumare, il primo marito lo ha lasciato quindici anni fa.

L’ultimo figlio di Crina, Daniele, è arrivato qui solo ieri, sta cercando lavoro, ha ventidue anni e una figlia di due, quest’anno ha portato con sé la compagna, Petruza: è la prima volta per lei in Italia. Si sono conosciuti su Facebook, lei, di anni, ne ha appena compiuti diciotto, viene da un altro paese della Romania; hanno chattato per quattro mesi prima di decidere di avere una figlia insieme: si chiama Sofia ed è rimasta a casa con la nonna materna. Petruza ha le gambe di una bambina, tanto sottili da lasciare intuire la nodosità delle ginocchia, e la vita che non supererà i cinquanta centimetri. I suoi occhi nocciola sono leggermente a mandorla, impercettibilmente strabici, gli zigomi sono affilati, e le labbra quasi spariscono arricciandosi una sull’altra. La prima volta che l’ho vista, seduta accanto al suocero, ho pensato che non potesse avere più di quindici anni.

Dieci euro al giorno

Gli occupanti della fabbrica vivono principalmente di elemosina, quando va bene arrivano a raccogliere fino a dieci euro al giorno, o almeno questo è quanto sostiene Crina.

Ogni mattina si alzano alle sei per cominciare la loro ricerca in città, tornano a casa verso le cinque del pomeriggio, mangiano qualcosa e poi si siedono attorno al fuoco per guardare su TikTok il video della nipotina che passeggia per Alba Julia. Il giorno migliore della settimana è la domenica, quando si appostano fuori dalle chiese; ogni mercoledì passano alcuni volontari della Caritas, si fermano all’entrata – sul retro della recinzione – e lasciano qualcosa da mangiare: pane, patate, frutta. A volte sono invece materassi e coperte.

Florin

Seduto accanto a me c’è il padre putativo di Daniele e compagno di Crina, Florin; anche lui come lei è analfabeta, ma vorrebbe imparare a scrivere: per questo ho disegnato a matita sul suo quaderno ciascuna lettera del suo nome, una per ogni riga in ogni pagina, in successione. Lui ha trascorso tutto il tempo a ricopiarle, in bella grafia: va a scuola di italiano due giorni alla settimana, ma gli piacerebbe imparare a scrivere anche in rumeno, i caratteri sono gli stessi, salvo alcune lettere cedigliate (con segno grafico posto sotto la lettera, tipo ç) e gli accenti circonflessi di alcune vocali chiuse. Florin non ha la patente, li accompagna sempre Daniele in macchina dalla Romania, sono tre anni che vengono qui, prima vivevano dalle parti di Roncafort.

Le baracche le hanno costruite con il legno che trovano facilmente nei dintorni, il quartiere ha mantenuto la sua vocazione industriale. Crina ci tiene a rassicurarmi: nelle baracche non piove mai. D’inverno abbandonano il campo, quasi sempre qualche giorno dopo l’Epifania, costa troppo scaldarsi e mantenere il fuoco acceso.

L’accampamento

La disposizione delle baracche segue la natura dei rapporti di amicizia e parentela che legano gli abitanti dell’ex fabbrica: a nord ci sono quelle di Crina, di suo figlio e di Samuel, il più vecchio e l’unico cattolico fra loro. Nel piazzale c’è la baracca di una coppia più giovane; i due, più diffidenti, mi rivolgono solo un saluto. A ovest del piazzale abita Teresa, anche lei è seduta vicino a me, a destra: ha l’aspetto che ognuno di noi assegnerebbe nel proprio immaginario alle donne dell’est, è circolare, nell’addome e nel viso, le sue gote sono arrossate e lo stesso vale per la punta del naso. Per tutto il tempo che ho trascorso con loro mi ha sorriso; mentre mi parlava aveva i modi di una ragazzina. Non sa quasi per niente l’italiano e quando chiedo a Daniele di farmi da interprete, lui, di rimando, mi sorride e ammiccando col dito. fa segno che è matta.

Un salto in città

Io e Daniele, un paio di giorni dopo, siamo andati a comprare due lampade con la mia macchina. Ho acceso l’autoradio e gli ho chiesto, prendendo la seconda uscita alla rotonda, se non lo facesse mai arrabbiare il fatto di non riuscire a spiegarsi completamente in italiano, pur capendolo discretamente bene. Mi ha risposto che lui non si arrabbia mai.

Quando siamo entrati in negozio la commessa cinese ci ha squadrati; la lampada Daniele l’ha voluta rossa, per sua madre arancione. Abbiamo aperto di nascosto un pacchetto di batterie per essere sicuri che fossero quelle giuste. Ritornati al parcheggio, gli ho indicato l’ammaccatura sulla fiancata destra della Punto, che lui non aveva ancora notato. Daniele ha cominciato a prendermi in giro ed a poco sono valse le mie giustificazioni, ossia che essendo consapevole di non avere le capacità sensoriali dell’Uomo Ragno, avrei bisogno di un’auto più squadrata e meno rotondeggiante. Il rientro è durato poco, la radio stavolta l’ho lasciata spenta, e a casa, dopo aver provato le lampade, mi ha offerto i semi di girasole.

Lo sgombero

Quando l’ho rivisto, una settimana dopo, Daniele non sorrideva. Ci siamo incontrati alla stazione di Trento. Hanno buttato giù le baracche e li hanno indirizzati ai dormitori. Non ci sono mai arrivati, non era facile non capendo bene l’Italiano. Li hanno sgomberati alle sei: quando Daniele è uscito dalla fabbrica ha trovato la ruota della sua auto tagliata. Ora dormono dall’altro lato di piazza Dante rispetto alla stazione; ancora non lo sanno, ma su di loro sono in corso indagini per occupazione abusiva di proprietà privata. Hanno un avvocato d'ufficio, dovrebbero contattarlo, ma non sanno neanche questo.

Ci siamo presi un panino e un caffè a testa al bar della stazione. Quando sono uscito mi sono accorto che qualcuno, per sbaglio, mi aveva preso l’ombrello, Crina ha insistito perché prendessi il loro.

I due giorni successivi li abbiamo trascorsi cercando una soluzione insieme, ma a Trento non esistono alloggi per famiglie e quei dormitori (maschili o femminili) che funzionano sono schiacciati dalle richieste di accoglienza. Abbiamo girato in tondo una mattina, tanto che Daniele, innervosito, non ne poteva più di camminare, ma non c’è stato verso di risolvere la situazione. In via Bronzetti, in una delle sedi sparse del Comune, il direttore dell’ufficio municipale per l’assistenza sociale, Davide, ha provato ad aiutarci nel miglior modo possibile indicandoci gli uffici e gli sportelli da contattare, ma – per continuare a dormire insieme – l’unica possibilità che rimane è la strada.