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Un ricordo di Nadia Ioriatti

Nadia Ioriatti ci ha lasciati. Era stata una di noi per oltre dieci anni. Una presenza singolare su QT: soprattutto attraverso una rubrica, “Io tinta di aria”, che parlava al femminile, di sentimenti, ragionamenti, lotte ed emozioni. Pagine lievi eppur dense. Riflessioni su se stessa, in cui potevi rispecchiarti oppure no: ma sempre ti lasciavano qualcosa, dentro ci vedevi scorrere una vita, che non era la tua, ma vita vera lo era. Una rubrica molto amata da tanti lettori. Che al giornale aggiungeva una nuova dimensione: il personale, l’interiore, l’incertezza, la tenerezza. Abbiamo voluto bene a Nadia; e così i nostri lettori. Poi la sua malattia, lunga e penosa, ci ha allontanati.

Vogliamo ricordarla in questo numero e nei prossimi pubblicando alcuni dei suoi scritti. Siamo sicuri di fare cosa gradita a chi la seguiva allora; speriamo di avvicinare anche altri.

Ho scritto il mio primo articolo su Questotrentino in aprile. Era sulla Casa del Sole. Con emozione ho aspettato che uscisse in edicola, convinta che non sarebbe stato pubblicato: bello essermi sbagliata. C’erano le iniziali del mio nome e cognome: NI. Ecco, quel NI non mi è mai piaciuto. Né sì né no… Sbagliatissimo per una come me, sempre stata o a favore o contro qualcosa. Indica un carattere neutro, inchinato. Non mi piaceva insomma. Poi sono maturata (si diventa saggi in qualche caso) e ho cominciato a capire che esistono altri punti di vista oltre al mio e che non si doveva essere integralisti su tutto. Qualche trasgressione ogni tanto, almeno col pensiero, bisognava concedersela, era curativo. Mi sono sentita più rilassata, quando ho smesso di irrigidire il pensiero. Quel NI era diventato più morbido.

Il secondo articolo parlava di anoressia (Fame d’amor o fame da morir? Lettera di Giulia, 24 anni, alla madre). Da quello in poi sono apparsi il mio nome e cognome: Nadia Ioriatti.

Nadia è un nome russo, significa "speranza" e mi rappresenta bene, perché nonostante tutto non perdo mai la speranza. Nome che piaceva ai miei genitori. Mia madre aveva conosciuto una bimba di nome Nadia sfollata durante la guerra in un paese del Trentino: morì a tre anni di febbre maltese. Mio padre aveva conosciuto una ragazza russa di nome Nadia; un incontro romantico? Magari... Mio padre era stato prigioniero a Mauthausen e lei era lì: finì nei forni crematori. Quante storie ho poi costruito partendo da un nome, da una guerra in comune, da due diversi modi di morire, da come sarebbe stata la loro vita se... Risale all’infanzia la mia passione per le storie vere e il piacere di raccontarle.

Una tristezza infinita mi veniva a volte perché mi sembrava che il mio nome portasse male. Adolescente, mi ribellavo e gridavo ai miei genitori: ma insomma, non n’avevate uno un po’ più allegro da mettermi? Con un nome così mi andrà tutto storto nella vita, e sarà colpa vostra. Da adolescenti si rinfaccia di tutto ai propri genitori. Poi sono cresciuta e ho fatto pace con il mio nome. Il cognome è tipico di una valle del Trentino. Non ci sono personaggi famosi che lo hanno, non è un lavoro, non è un colore, non è una località.

Un nome e cognome senza infamia e senza lode. Fino a quando mi sono fatta l’anagramma (ho la passione per gli anagrammi), ed il risultato è stato poetico, mi ha ripagato di quell’anonimato che mi seguiva fin da piccola: IO TINTA DI ARIA. Mi rappresenta, mi ci riconosco, parla di leggerezza ma non d’inconsistenza. È aria che accarezza, che tinge le guance, trasporta i pensieri, passa tra capelli e dolori, porta ricordi e idee nuove.

Qui trovate anche la mia foto perché è giusto avere un volto, oltre a tre tipi di firma, quando si fanno discorsi così personali.

Mi è sempre piaciuto scrivere. Fin da bambina sono stata un’accanita lettrice con un sogno: da grande vorrei fare la scrittrice. La vita ha preso altre strade, alcune irte e tortuose, alcune più dolci, poi un vicolo cieco, una brusca frenata, l’angoscia iniziale che pian piano si trasforma in più tempo: per coltivare l’anima, riorganizzare i pensieri, capire quello che fa davvero bene al cuore.

Mi ha dato una mano John Fante. Nel suo libro autobiografico "La Confraternita del Chianti" scrive: "L’asma era fatale? Poteva esserlo. E così sia. Dostoevskij era epilettico, io avevo l’asma. Per poter scrivere bene, un uomo deve avere un’indisposizione fatale. Era l’unico modo per aver a che fare con la presenza della morte".

Ecco, anch’io possiedo un’indisposizione fatale, che mi ha tolto e dato molto, e dopo averla rifiutata e nascosta per anni, ora la metto sul mio biglietto da visita. Negli ultimi tempi pensavo che se fossi apparsa su un giornale sarebbe stato solo per un evento sfortunato, per questo sono davvero felice di collaborare a questa rivista. L’ho sempre considerata molto corretta, vicina al mio modo di pensare. Forse un po’ seriosa, un po’ mascolina, non maschilista, per carità.

Talvolta ho pensato che mancasse qualche punto di vista personale che parli di emozioni e sentimenti, non la "posta del cuore", no davvero. Magari uno spazio dove persone sincere, uomini e donne, si raccontano e parlano di vita, sentimenti, emozioni, dolori, progetti, ricordi, figli, genitori, amicizie, amori. Uno scrivere terapeutico, liberatorio ed educativo per chi lo fa e per chi lo legge: le esperienze degli altri aiutano sempre. Ritrovarsi, riconoscere un sentimento che si è provato, qualcuno che ha fatto il nostro stesso errore, che si commuove o s’indurisce nello stesso modo, qualcuno che invece non avrebbe mai pensato di… Come siamo insomma, come vediamo il mondo.

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