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QT n. 3, 7 febbraio 1998 Servizi

Disabili psichici: è possibile farli vivere meglio?

Qualcuno auspica la chiusura degli istituti che in Trentino ospitano 250 giovani e adulti con handicap intellettivi. E' una proposta realistica? E dove finirebbero queste persone?

Piccolo è bello": ma è sempre possibile? L'infelicità e i guasti prodotti su bambini e adulti dalle cosiddette "istituzioni totali" sono stati al centro di infiniti studi, soprattutto negli ultimi trent'anni, fino a diventare una consapevolezza diffusa che ha permesso di svuotare o riciclare - inventando soluzioni alternative e più umane - gli istituti per bambini senza famiglia, quelli per handicappati fisici, le case di riposo, i manicomi. Con tempi ed esiti diversi: nel caso del disagio psichico, ad esempio, la mancanza di strutture sparse sul territorio per aiutare le famiglie, è un problema ancora aperto.

Ed ecco che qualche mese fa si è aperto un nuovo capitolo di questa storia, avente come protagonisti gli handicappati psichici, o meglio, chi di essi si occupa.

Per queste persone, nelle quali spesso al deficit intellettivo si accompagnano difficoltà fisiche anche gravi, esistono in Trentino tre istituti di rispettabili dimensioni: la Piccola Opera di Levico (94 ospiti), Villa Maria di Lenzima (100) e Casa Serena di Cognola (40). La discussione nasce proprio in merito a Casa Serena, sorta ai primi del '900 come orfanotrofio e successivamente utilizzata come istituto per disabili psichici, gestito inizialmente dalle suore e successivamente dall'Anffas. Si tratta di un edificio vecchio, bisognoso di ristrutturazione; e la Provincia finalmente provvede, stanziando quasi 13 miliardi che permetteranno di sistemare la costruzione originaria e di edificarne una nuova; i lavori dovrebbero iniziare nel prossimo marzo e concludersi verso la fine del '99.

A questo punto, Dario lanes, presidente della cooperativa "La Rete", avanza in una lettera aperta una proposta provocatoria ma non troppo: perché non utilizzare quei soldi per progettare un tipo diverso di accoglienza, un sistema di risposte alternative all'istituto, di dimensioni più ridotte e sparse sul territorio? Perché, insomma, non chiudere Casa Serena?

Lo "stupore e dolore " delle famiglie di ospiti dell'istituto nei confronti di questa proposta è abbastanza scontato: dopo una decisione dolorosa e connotata da sensi di colpa come quella di affidare ad altri un proprio familiare, si vuole almeno il conforto di sapere che la soluzione adottata è la migliore. E poi - è il commento della coop. La Rete - in queste faccende "ogni cambiamento è sempre vissuto dai genitori come un salto nel vuoto ".

Dopo qualche tempo si è comunque arrivati - la scorsa settimana - ad un primo confronto pubblico, a cui dovrebbero seguirne altri più specifici, in maniera da chiarire una questione sulla quale, da entrambe le parti, sembra non esserci tutta la chiarezza necessaria.

Da un lato i "conservatori", a parte alcune accuse (soprattutto di familiari) dettate dall'emotività ( "Parlate di cose che non conoscete!"; "L'handycap viene strumentalizzato per scopi più o meno chiari"...), hanno eluso il nocciolo della questione, sforzandosi di dimostrare che Casa Serena e gli altri istituti funzionano bene, sono aperti all'intervento dei familiari, praticano la divisione degli ospiti in gruppetti che sono "quasi delle famiglie". Tutte cose che nessuno ha mai contestato.

Il direttore di Villa Maria si è spinto oltre, arrivando a dire che "non è l'istituto in quanto tale che opprime; anche la famiglia può essere opprimente ". E concludendo perentorio: "Il dibattito istituti sì, istituti no, è ideologico ".

Gli ha indirettamente risposto un suo "collega", il presidente della Piccola Opera di Levico, il sociologo Antonio Scaglia, che dopo aver enumerato alcune iniziative prese per aprire all'esterno la sua casa, ha però dovuto ammettere che il difetto, come suoi dirsi, sta nel manico: nonostante tutto, anche il suo rimane pur sempre un istituto, con tutto quello che ciò significa, e dunque vale la pena di sperimentare dell'altro.

Gli "innovatori", a loro volta, hanno un po' peccato di vaghezza: certo, vi sono sul territorio provinciale numerose esperienze già in atto da tempo (appartamenti protetti, comunità alloggio, centri diurni, laboratori protetti...) che si potrebbero allargare. Ma l'obiezione sollevata dal dott. Pasquale Di Marco, neuropsichiatra infantile e consulente di Casa Serena è parsa inattaccabile: "In presenza di certe situazioni - ospiti impossibilitati a camminare o gravi forme epilettiche - gli istituti come Casa Serena restano indispensabili, sono un'ultima spiaggia di cui non si può fare a meno".

Una mediazione dettata dal buon senso è apparsa quella dell'assessore alle Attività Sociali del Comune di Trento, Alberto Pacher, che dicendosi d'accordo con una qualche forma di sperimentazione, ha detto che, così come si sta facendo nelle case di riposo, anche gli istituti per disabili psichici dovrebbero trasformarsi in RSA destinate esclusivamente a chi non ha nessuna autonomia, dirottando gli altri ospiti in quelle strutture (comunità alloggio, ecc.) che del resto già esistono e stanno dando buona prova.

Ma paradossalmente, è stato solo dopo oltre tre ore di confronto, e cioè verso la fine del dibattito, che finalmente sono apparsi davvero chiari i termini della questione: quando Maria Grazia Breda, del "Coordinamento Sanità e Assistenza fra i movimenti di base" di Torino, ha meglio precisato i termini di un'esperienza in atto a Torino, dove, ispirandosi fra l'altro ad un progetto di de-istituzionalizzazione attuato in Norvegia fra il 1991 e il '95, e con l'appoggio della locale Anffas, sono state approntate due piccole strutture, ciascuna con 8 ospiti, riservate proprio ai disabili psichici più gravi. Piccole comunità, mini RSA insomma (dove le necessità di tipo sanitario sono garantite), inserite nel normale tessuto urbano, che proprio per le ridotte dimensioni presentano - a detta della dott. Breda - una serie di vantaggi non indifferenti.

Anzitutto c'è la possibilità di disseminarle sul territorio, agevolando una presenza assidua dei famigliari che negli istituti tradizionali non sempre è facile (la relatrice ha raccontato di famiglie torinesi che hanno i propri cari ricoverati fino in Veneto). Un appartamento in un normale condominio rende poi più facile un contatto con la realtà esterna e un' organizzazione della vita quotidiana più elastica, più vicina alla normalità. E infine, le possibilità di integrazione - per quanto ciò sia possibile - sono favorite proprio dal fatto di trovarsi di fronte a piccoli numeri: ciò significa sia poter usufruire dei normali servizi insieme col resto della popolazione (il che non sarebbe possibile ove si trattasse di decine di persone), sia favorire un atteggiamento di tolleranza e comprensione da parte della gente. Non a caso, nelle politiche per gli immigrati (il paragone non sembri fuori luogo: sempre di "diversità" si tratta), si è da tempo capito quanto sia foriero di atteggiamenti intolleranti fra gli italiani il concentrare in una stessa zona un numero eccessivo di extracomunitari.

La teoria è attraente, ma naturalmente sarà necessario verificare col tempo il funzionamento di queste strutture. Fin d'ora sarebbe però il caso di avere informazioni più dettagliate sull'esperienza torinese (e su quella norvegese), per capire se possa davvero adattarsi a tutti i disabili psichici, se davvero sia in grado di garantire la copertura sanitaria che occorre, se i costi siano sostenibili, ecc. ecc.

Alla proposta avanzata dalla cooperativa "La Rete" di dare il via a una serie di incontri che entrino nei particolari del problema, nessuno ha rifiutato, a cominciare dal presidente dell'Anffas Enrico Pancheri; anche se, in base a quanto si è sentito durante questo primo contatto, è difficile essere ottimisti.