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Come Nestlé & C. devastano l’Africa

Da "L’altrapagina", mensile di Città di Castello (Perugia)

Pierli Francesco

Sotto le feste del passato Natale si fece un gran parlare della Nestlé: l’occasione fu data dai panettoni avvelenati. In un collegamento in diretta con Radio Uno furono intervistate due suore comboniane, ambedue infermiere con una lunga esperienza africana di lavoro in maternità. Senza mezzi termini denunciarono la politica della Nestlé, che con una poderosa propaganda cerca di convincere le mamme africane ad abbandonare il tradizionale allattamento al seno e sostituirlo con il biberon del latte in polvere Nestlé. Denunciarono che le conseguenze, sia dal punto di vista fisico (sviluppo dei neonati e protezione contro le malattie infettive) che da un punto di vista psicologico-affettivo (legame madre-bambino), almeno qui in Africa sono devastanti.

Nello stesso senso si espresse anche padre Pier Maria Mazzoli, direttore del mensile Nigrizia.

Anche il sottoscritto ebbe l’opportunità di presentare il punto di vista dei missionari. Noi abbiamo delle forti perplessità sulla politica delle multinazionali, Nestlé in particolare, perché è una delle più potenti con una affermata presenza in Africa.

E’ un pregiudizio o ci sono dei motivi? E’ vero: noi missionari non siamo d’accordo con la logica e la strategia degli investimenti delle multinazionali come Nestlé, Dal Monte (frutta), De Beers (diamanti), Shell (petrolio). Senza parlare poi delle multinazionali delle armi, delle mine, che riforniscono e mantengono fiorenti le attuali guerre; quelle dei rifiuti industriali e chimici che avvelenano l’Africa coi rifiuti che l’Europa non riesce a smaltire; quelle del legname che stanno dilapidando e distruggendo le una volta famose foreste vergini dell’Africa, dalla cui esistenza tutti dipendiamo per la rigenerazione dell’ossigeno e l’assorbimento della crescente anidride carbonica.

Presento ora brevemente le nostre obiezioni di missionari ed ogni lettore vedrà da sé la forza delle argomentazioni. Io sono in Kenya e quindi ho presente soprattutto quanto avviene in questa nazione.

Il Kenya ha una superficie di 600.000 kmq., quasi il doppio dell’Italia, ma solo 125.000 sono coltivabili: il resto è steppa arida e deserto sassoso. Le multinazionali del caffè, del tè, dell’ananas, dei fiori, si impossessano della terra migliore. Che resta alle popolazioni locali? Le zone aride, senza pioggie, senza possibilità di irrigazione e in più isolate, senza strade per il commercio. Se uno visita il Kenya con qualche itinerario organizzato da chi è sensibile a questi problemi e non dalle solite agenzie turistiche, può vedere con i suoi occhi. Ottime zone come quelle di Thica, Limuru, Kiambu, Nyanyuki, pendici del monte Kenya, Rongai, le così dette High Lands, sono ormai tutte nelle mani delle multinazionali del caffè, del tè, del piretro, del frumento, di quant’altro. I kenyoti dove sono? A tribolare nelle baraccopoli che si stanno sempre più gonfiando e a seminare per non raccogliere, a volte, neanche il seme, nelle zone aride.

Uno si domanderà: ma chi vende o affitta questi terreni alle multinazionali? Il governo! In particolare alcuni ministri. Questa è la strategia delle multinazionali: hanno una notevole disponibilità di denaro per corrompere governi e individui. Propagano e stimolano la corruzione per entrare nei mercati e vincere la concorrenza. E’ ridicolo pensare che la corruzione a livello internazionale possa diminuire se le grandi centrali del denaro che sono le multinazionali usano la corruzione come normale strategia. Se non ci saranno accordi internazionali per bloccare questa piaga, la corruzione causerà insostenibili condizioni di vita, aumentando le guerre e l’instabilità politica e sociale, soprattutto in Africa.

Qualcuno potrebbe obiettare: ma danno lavoro alla gente! E’ proprio vero? E’ vero in misura ridottissima. Con l’agricoltura industrializzata gli operai sono pochissimi e poi spesso i prodotti sono portati e lavorati in Europa. L’Africa diventa il mercato dove le multinazionali cercano di vendere i prodotti, più che il luogo di lavorazione. Inoltre i salari sono bassissimi: se un operaio agricolo prende 90.000 lire al mese - e senza alcuna assicurazione - è un miracolo. La minima malattia diventa una tragedia familiare. Le condizioni di lavoro sono generalmente spaventose; perché, per esempio, nel periodo in cui vengono irrorati i pesticidi, aumenta la mortalità infantile e le malattie alle vie respiratorie? Non si dimentichi che la maggior parte della gente va scalza e beve acqua raccolta all’aperto, per cui è facilissimo restare avvelenati. Ma chi se ne preoccupa?

C’è inoltre da chiedersi: come mai negli anni Sessanta l’Africa era autosufficiente dal punto di vista alimentare, mentre ora dipende sempre più dal cibo importato? Ora l’Africa produce ciò che non consuma e consuma ciò che non produce.

Prendiamo il Kenya. La gente era abituata a vivere su granturco, fagioli, arachidi, cavoli, pomodori e carne di pollo, vacca e capra. Ora i terreni dove tutto questo cresceva sono stati riciclati per coltivare caffè, tè, frutta, grano, fiori. La produzione degli alimenti usati dalla gente è diminuita drammaticamente, perciò la fame aumenta e la popolazione è malnutrita.

Un segno è il ritorno della tubercolosi, favorita dall’insufficienza alimentare. Il dono di un po’ di cibo, che alcune multinazionali esportano a volte in Africa con grandi squilli di fanfare, è meno di una goccia di fronte a questo squilibrio alimentare che la loro politica sta provocando. La loro produzione non tiene conto dell’Africa, ma dei mercati in altre parti del mondo dove si possono realizzare consistenti profitti.

L'Africa deve ancora far fronte ai bisogni fondamentali: cibo, acqua potabile, alloggio, educazione primaria per le nuove generazioni, un minimo di strutture sanitarie e di rete stradale. Le multinazionali, con la loro martellante propaganda alla radio, su giornali, tv e foglietti volanti, creano falsi bisogni e false convinzioni. Se non bevi quel caffè, non sei uno del 2000. Se non usi questo o quel biberon (Nestlé) o questo o quel pannolino (Johnson), non sei una buona mamma, non vuoi bene al tuo bambino. Senza parlare poi dei cosmetici e dei coloranti della pelle e dei capelli.

La gente non è abituata ancora alla dialettica della pubblicità, difficilmente si difende e scambia per importante quello che è un ingrediente inutile se non dannoso. Se i falsi bisogni creati dalla pubblicità sono dannosi ovunque, in Africa sono mortali.

Da quanto detto, appare chiaro che la logica delle multinazionali è violenta, perché mette il prodotto e il guadagno al di sopra della persona e del bene della comunità. Le persone vengono usate per obiettivi finanziari e di potere. Si installano dove la gente è più debole, meno capace di difendersi, e le strutture statali meno organizzate per resistere alle loro pressioni.

L’Africa e diverse altre aree del terzo mondo sono in questa condizione di debolezza. Noi missionari non vogliamo demonizzare nessuno: riconosciamo che le multinazionali hanno una loro funzione nel mondo di oggi.

E’ urgente però riconsiderare come funzionano. I governi delle nazioni più industrializzate del mondo non possono far finta di non vedere. Anche la Chiesa dovrà far sentire la propria voce, a meno di mancare a un dovere morale gravissimo.