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QT n. 5, 10 marzo 2001 Monitor

Il trionfo di una soporifera tradizione

Il socio minoritario Chiambretti, in un’edizione del Festival di Sanremo di alcuni anni fa, aveva lanciato il tormentone: "Comunque vada, sarà un successo". Oggi la sua caposquadra Carrà conclude le interviste con "...perché Sanremo è Sanremo".

Le frasi significano la stessa cosa: 12 milioni di spettatori i quali, seppure in calo nell’edizione 2001, sono comunque un’evento tv che trita tutto, le critiche in primis, e rende felici sponsor e dirigenti Rai. Solo che nella prima frase c’è ironia, e quindi implicitamente dell’autocritica, nella seconda no. C’è solo l’autocompiacimento di una posizione di forza.

Ho seguito poco il festival, ma come tutti ho subìto una serie di servizi dei telegiornali e rotocalchi televisivi. Come al solito, c’è stato il rituale contorno di polemiche. Come quella sul chitarrista del gruppo inglese Placebo che ha sfasciato (per meglio dire tentato di sfasciare) la chitarra su un amplificatore e poi ha salutato il pubblico con il dito medio in alto. E i telegiornali si sono scapicollati a ricordare come trent’anni fa già in molti avevano fatto lo stesso, dagli Who a Woodstock a Jimi Hendrix, che la chitarra l’aveva addirittura incendiata in alcune performance live. Vecchi trucchetti insomma. Vero. Ma allora, se si sa che i gruppi rock fanno queste cose perché ci si scandalizza se poi le fanno? Perchè si sbraita tanto se non portano rispetto al tempietto della musica italiana? Perché si frigna se, per quanto fagocitati dal business ma sempre incongrui musicalmente, considerano il palco di Sanremo come mero luogo per uno strapagato momento di grande audience? Con buona pace dell’ipocrita Piero Pelù.

Ma sono cose minori.

Minore sarebbe anche l’importanza del festival in sé, ma sabato 3 marzo, ultimo giorno di kermesse, tutti i telegiornali si sono sentiti in dovere di aprire con un servizio sulla penultima giornata del festival andata in onda la sera prima. E come secondo avvenimento la Ferrari alle prove del gran premio di Australia. Il tutto mentre i Talebani prendevano a cannonate le gigantesche statue dei Buddha incavate nella roccia afghana. Opere d’arte e testimonianze religiose millenarie di inestimabile valore. Al di là dell’intollerabile atto integralisata, è come se gli egiziani avessero cannonato le piramidi, o gli italiani la cattedrale di San Marco a Venezia. Comunque, per i Tg nazionali un fatto sempre meno importante di Sanremo.

Ma queste sono altre questioni.

Tornando al festival, è saltata immediatamente all’occhio l’impostazione del carrozzone a totale immagine della conduttrice, la quale si è presentata alla prima uscita vestita di bianco ed immersa in una abbagliante luce di spalle che l’ammantava di un aura sacrale. Così madonna Raffa è apparsa per porgerci la buona novella della canzone nazional-popolare servita nella più alta concentrazione retorica di buoni sentimenti consentita ad un essere super-umano. Al di là dei suoni, a Sanremo quel che più ha contato sono state le esternazioni di grande affetto nei confronti dei suoi ospiti, sul palco e davanti allo schermo. Un enorme e pacchiano sforzo di compiacimento per un mondiale ecumenismo mediatico fatto di sperticate testimonianze di stima, di elogi per tutti, con grande spreco di superlativi assoluti: eccezionale, fantastico, bellissimo, interessantissimo.

"A cosa pensi, Elisa, quando passeggi sulla spiaggia di Sanremo?"

"Ai miei genitori".

"Giustissimo! Bravissima, Bellissima!"

La famiglia, certo, i valori. E la canzone, la musica? Ma i cantanti sono lì per quello o per mostrare quanto sono pii anche loro?

E dunque ecco anche al festival l’imbarazzante, falso ed ipocrita stile buonista integrale, che sfrontatamente marcia ignorando i rischi dell’omologazione verso l’alto e l’inevitabile appiattimento acritico. Imperterrito avanza, solo ottusamente amareggiato se alla prima incrinatura cade in blocco su più realistici livelli di umana mediocrità, se non peggio.

Ed è con un atto di dolore che, in questo paradiso dove tutto è volto in positivo in nome della stessa eucaristica condivisione di gioia che in passato aveva prodotto le carrambesche sorprendenti riconciliazioni familiari, viene da chiedersi: come ci si può sentire critici (non solo giornalisticamente) se non come violatori, atei, ingrati, demoni?

Infelici e frustrati che vogliono per forza vedere il bicchiere mezzo vuoto, che vedono solo il male, che farebbero bene a restarsene nell’inferno della loro vita quotidiana. Poverini, Raffa lo sa che loro non sono cattivi, ma che la critica è così, intrinseca ricerca del difetto, del male. Lo dice la parola stessa. Lei lo capisce, è buona e ci perdona.

Però, dopo l’arduo tentativo di svecchiamento, nella formula e nella direzione se non nella musica, del festival nelle edizioni Vianello-Fazio, quest’anno il baraccone Sanremo è tornato prepotentemente nei solchi della più scontata e soporifera tradizione che ha portato al calo dell’audience. Del quale non ci consoliamo pensando, come certi cronisti Rai, che quei due-tre milioni di telespettattori in meno sono andati al cinema o hanno letto un libro, perché sappiamo benissimo che hanno solamente cambiato canale.

Perché, evidentemente, vedere Sanremo, ancora, non è un precetto religioso.