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Klinger e Ferroni a Bergamo

Dodici incisioni di Klinger immerse in un’aura di sogno e la luce sospesa sulle cose nei lavori di Ferroni.

Un bisonte a testa bassa che solleva un nugolo di polvere. Il mondo dell’aldilà o la storia che incalza la vita dell’uomo senza lasciare un filo di fiato? Eros guarda avanti al carro, ma le redini sono saldamente rette da Thanatos. Le sorti chiare e progressive predicate dal mondo della scienza sono completamente ricusate da Max Klinger, artista tedesco attivo nella seconda metà dell’Ottocento, dalla sua visione sì classica, ma intrisa di un’atmosfera onirica e di rimpianto nei confronti della "chiarità dello stato di natura" e di elementi di leggenda. Michel Tournier ci ricorda che "eterni gli dei non sono viventi. Non possiedono quella metà d’ombra, la promessa della propria morte che accompagna ogni uomo dalla nascita e che gli conferisce uno spessore". La chiarità è sentita come anelito di purezza, un classicismo sempre ricercato dall’artista ,ma osteggiato dagli uomini ("Il centauro inseguito" ne è l’emblema). Anche il tema dell’infanzia (negli episodi tratti dalla vita di Simplicius) che affonda le sue radici nel vagheggiato stato di natura, di una natura meravigliosa senza contrasti abitata da orsi ed elfi, diventa, come ha scritto Aragon, "la materializzazione di un simbolo morale in opposizione violenta con la morale del mondo in mezzo al quale sorge".

Progressivamente la visione di Klinger si colma di contrasti e di ombre, marchiata com’è dal germe della malattia e della morte: una cartella composta di dodici "Intermezzi" del maestro tedesco, in mostra presso la Galleria Olim di Bergamo fino al 15 giugno (dodici incisioni che lacerano il velo del tempo) bastò a Giorgio de Chirico perché la definisse altamente impressionante.

Un artista che fa invece i conti con il presente, con il carico di umano dolore e di magica sospensione sulle cose è Gianfranco Ferroni, artista livornese che da circa una cinquantina d’anni con una ricerca rigorosissima e con esiti straordinari continua a regalarci il senso della trasfigurazione che l’operazione artistica compie nei confronti del reale.

Gianfranco Ferroni, “Letto disfatto”, 1982 (acquaforte).

Ogni suo dipinto, disegno, ogni sua incisione è la rappresentazione di un cuore e di una fitta trama di vasi, tela di ragno, tela fittissima pulviscolare di luce lombarda che solo un miracolo riesce a tenere in piedi. Si ha quasi timore ad avvicinarsi troppo per paura di smagliare quei sottilissimi fili. Un ragno vive in solitudine, lontano dal rumore per riuscire a "vedere ogni cosa nella sua qualità di cosa" e per riproporre poeticamente un principio d’ordine nel caos dell’esistente. E’ sul presente che si poggia dolcemente la polvere del tempo, su quel cartoccio celeste (che visivamente rimanda al panno giallo di alcune nature morte di Morandi), su una ciotola nera , su un panno stropicciato e su quel groviglio di pieghe di berniniana memoria (senza il suo apparato scenografico).

A proposito della mostra tenutasi a Trento nel 1985 Roberto Tassi scrisse queste bellissime parole: "La sua opera grafica è abitata dal silenzio... dal silenzio del dopo, la quiete terribile della cosa appena avvenuta".

La mostra di Ferroni alla Galleria Ceribelli di Bergamo durerà fino a fine giugno.

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