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QT n. 3, 12 febbraio 2005 Monitor

“Il bugiardo” borghese di Glauco Mauri

Un allestimento che va oltre la Commedia dell'Arte e il '700 di Goldoni. Spettacolo sottile, dolce-amaro, di rara intensità.

Si alza il sipario. Basta uno sguardo per capire che sull palcoscenico non c’è solo Goldoni, ma il frutto di una lettura personale, attenta, velatamente moderna, che trascende la commedia originale. Davanti a un cielo crepuscolare, due figure immobili, sospese sulle altalene come marionette senza vita. Poi la luce; non il sole, dato che è notte fonda, ma l’inizio di un sogno: negli occhi del protagonista Lelio, il ‘700 si trasfigura. Caldo, ambiguo, finto; eppure questo lo capiremo dopo. A entrare in scena, infatti, è Florindo (il timido rivale di Lelio) insieme al fedele servo Brighella. La luce scopre l’inganno, illuminando due bellissime donne.

Già dall’incipit, Glauco Mauri gioca le sue carte, senza fretta di scoprirle. A poco a poco, c’introduce in una visione che finirà bruscamente, così com’è iniziata. Le maschere, imborghesite, non vestono gli abiti convenzionali della Commedia dell’Arte: Arlecchino, Colombina e Brighella evolvono da "carattere" a "personaggio". Un passaggio ancora in fieri nel "Bugiardo" goldoniano e compiuto, invece, in quest’allestimento. È, forse, uno dei rari casi in cui una rappresentazione supera il testo originale. Lo spessore, però, trova nella leggerezza l’altra faccia della medaglia. La contraddizione è studiata a tavolino per mettere in risalto l’incontro-scontro fra il ‘700 reale e il ‘700 inventato. Il primo ha regole fisse; il secondo muta continuamente d’abito, impalpabile come la nebbia.

Pochi oggetti in scena, davanti a un fondale che cambia con facilità grazie a quattro (anacronistiche) mongolfiere. Dove prima c’era un enorme tappeto, ora c’è un cielo dipinto rischiarato da tempestive comete, ora uno sfondo irreale che addirittura si sostituisce all’autentica Venezia: non più gondole, ma "bicigondole" per la fantasia di Lelio. La città appare buia e deserta solo a inizio e fine commedia; ovvero quando il personaggio-chiave non è ancora giunto da Napoli e quando va in esilio, abbandonato da tutti, promettendosi di non dire più bugie, ma giusto qualche "spiritosa invenzione" ogni tanto. In questi due momenti, il ‘700 di Mauri (il secolo più amato da Kubrick) ci ricorda quello, altrettanto cupo dietro la maschera giocosa, di "Barry Lyndon". La sospensione tra favola e realtà evoca un mondo in cui solo un ingenuo, un creativo, un "bugiardo" può credere. Ma i sogni finiscono e la medicina della vita è un veleno amaro da bere.

Con l’aiuto di Alessandro Camera, Mauri e Sturno scavano a fondo, con coerenza, nei minimi dettagli. Così anche il resto del cast, sempre in parte e mai macchiettistico. Splendidi i costumi e ottima la colonna sonora che, coi quartetti di Haydn, dà alla pièce il sapore dolce-amaro del vivere in società. Solo una commedia? No, uno spettacolo sottile, di rara intensità, che nella sua morale castiga senza condannare.