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QT n. 5, 12 marzo 2005 Monitor

L’armata infernale di Moni Ovadia

Livida, cupa, la "Konarmija" di Babel' allestita da Ovadia, è uno spettacolo denso di morte, tra eroismo e cupio dissolvi.

Trento e Ovadia: un legame privilegiato, che l’artista ha voluto rinnovare. La tournée di "Konarmija" tocca così anche il nostro imprescindibile Auditorium, nonostante le inadeguate dimensioni del palcoscenico. A inizio spettacolo un portavoce della compagnia annuncia che la scenografia sarà ridotta, in qualche caso sacrificata; ma l’espediente lascia intatti senso ed atmosfera della pièce, insieme al desiderio di viverla, un giorno, nella sua pienezza.

In quest’allestimento del capolavoro di Babel’, grande importanza ha la musica, linguaggio al pari della parola. Un elemento tipico dello stile di Ovadia. I brani costituiscono il tessuto su cui si raccorda ogni vicenda, a partire dai tre inserti eseguiti dal vivo al piano: splendidi, energici, disperati. Ascoltiamo soprattutto, accostate per la prima volta l’una all’altra con un effetto straniante, "La morte del cigno" e "L’Internazionale".Nel balletto del soldato (interpretato da una donna) si esprime la poesia della morte; nel coro dei soldati, l’epicità della vita. Ma la prima, pur nella sua bellezza, appare più vera e crudele della seconda, di quegli ideali per cui si moriva durante la campagna di Polonia. La scenografia cupa, a tratti lugubre, ricorda quella espressionista ("Il Golem", "Frankenstein"): alberi spettrali ai lati del palcoscenico e filmati al centro virati in rosso e nero, colori infernali. L’armata a cavallo pare un’ombra imponente che avanza all’unisono; ma in carne e ossa si riduce a teste equine su manici di scopa cavalcati dai soldati. Lascia il segno il pianoforte quasi sospeso in una stanza bombardata, reso ancora più irreale da quel cadavere accasciato sulla cassa armonica.

Stati d’animo ed emozioni tengono, dandole unità, la sequenza caotica degli episodi bellici. Intreccio narrativo e psicologia cedono il posto a lampi di verità, che squarciano per pochi istanti l’impenetrabile Io dei personaggi, tornando poi nell’oscurità. Ebrei, Polacchi, Russi danno il meglio e il peggio di sé: balli e piroette, bei discorsi sono tregue effimere; la bestialità è dietro l’angolo, ben più della coscienza. Padri e figli si annientano, accecati da ideali (e ideologie) che passano sopra ogni affetto. La voglia di vivere soccombe ai colpi di fucile e alle esecuzioni sommarie, mentre chi si ostina a non uccidere è un utopista che delira, convinto che la rivoluzione sia anche per le api. Battute ridotte al minimo, come nell’originale. "Sai cosa fa un ebreo quando ha freddo? Si avvicina alla stufa. E quando ha molto freddo? Allora la accende" è l’unica degna di nota e non alleggerisce un testo denso di morte, tra eroismo e cupio dissolvi; un testo che Ovadia e la sua compagnia ci hanno donato nel migliore dei modi possibili.

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