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QT n. 13, 2 luglio 2005 Servizi

Ucraina: radici d’Europa e popoli in fuga

Viaggio nel Paese della “rivoluzione arancione”.

Nei giorni del voto negativo della Francia e dell’Olanda all’Unione Europea, uno strano caso ha portato chi scrive a visitare l’Ucraina, o meglio alcune sue parti, un paese che è sulla lista di attesa per l’ingresso nell’UE. Avendo scritto di recente un saggio sulla Crimea come luogo di destinazione dell’insediamento degli optanti sudtirolesi, sono stata invitata a partecipare a un viaggio organizzato da una docente di letteratura e lingua russa dell’Università di Genova. Un piccolo gruppo di studiosi aveva come mèta il luogo in cui la Repubblica marinara di Genova nel Medioevo si era insediata sulla via della seta e delle spezie che venivano dall’Oriente e inoltre le località in cui spesso si recarono e vissero i più grandi scrittori e artisti russi, Puskin, Cechov, Volosin, Marina Cvetaeva, Aivazovski, Babel, ecc.

Crimea, la fortezza genovese di Sudak.

Dell’Ucraina si è parlato di recente per la cosiddetta "rivoluzione arancione" e per l’attentato chimico al suo presidente, che prima era il presidente della banca nazionale, e la cui elezione è stata sostenuta dal Fondo Monetario Internazionale con le conseguenze economiche già note (vedi Albania, ecc.), come ha ben descritto l’economista canadese Michael Chossudovsky. Dell’odierno stato dell’Ucraina fa parte la Crimea, l’antica Tauride, dove si trova Yalta, e il luogo dell’incontro post-bellico di Stalin, Roosevelt e Churchill, il palazzo dell’ultimo zar, Nicola II, il meraviglioso giardino sul mare che lo circonda. Yalta dalle belle ville, dove in una piccola casa circondata da alberi piantati con le sue mani, Cechov scrisse "Il giardino dei ciliegi".

L’Ucraina ha deciso di avere una sola lingua ufficiale, quella ucraina appunto. In Crimea la conoscono in pochi: russi, altre nazionalità, e perfino i tartari, deportati da Stalin nel 1944 e ora in via di reinsediamento, parlano russo e non ucraino. Un bel pasticcio, regalo di Breznev, che pensava ad una unione amministrativa, e che oggi rischia di provocare guai etnici, e nuovi spostamenti di popoli.

Paralizzati dal disastro economico, inutilmente contraddetto dai dati statistici dei neocom, che non tengono conto delle condizioni sociali, invece di dare una mano ai tartari che ritornano dopo più di mezzo secolo dall’Uzbekistan, le autorità ucraine adottano il metodo del "lasciar fare" di fronte al loro reinsediamento spontaneo: nelle baie, nei vigneti, perfino nei giardini pubblici sorgono le casette di mattoni gialli in forma di yurta dei reduci dal lungo esilio, spesso organizzati intorno a nuove ed enormi moschee, dono dei turchi e delle associazioni internazionali musulmane, i cui versamenti di rado vanno a favore della popolazione.

Le leggi impongono ai privati l’assunzione di quote di appartenenti al popolo che ritorna, ma senza interventi di sostegno dello stato, né nella formazione dei giovani, né a sostegno dei piccoli imprenditori o artigiani. Si sono messi in moto verso la loro terra d’origine per ragioni ideali ma anche per sfuggire alla miseria, e alla situazione pericolosa dell’Uzbekistan, ma non vogliono tornare a vivere come un secolo fa. Cercano, come tutti al mondo, una vita migliore.

Il piccolo imprenditore che ci fa da autista con il suo pulmino moderno ma comunque incapace di ammorbidire le botte di strade sempre dissestate, russo di Yalta, benché sia un benestante rispetto a tanti suoi concittadini, si appresta a lasciare la patria, cercando sicurezza in un altrove incerto. La figlia è già emigrata. Il governo, diviso fra il presidente eletto trionfalmente ma impedito dalla gravissima malattia probabilmente effetto di un avvelenamento politico, e la prima ministra che si lascia spesso tentare da interventi demagogici, fa una politica pericolosa, contrapponendo i diritti anziché cercando di riunire le forze per sottrarre il paese alle difficili condizioni economiche in cui si trova.

La Crimea ha una storia segnata da ferocia incredibile, ma anche da convivenze sorprendenti. Vicino a Bakhchisaraj, "città dei giardini", capitale della Crimea fino al 1780, sede del canato, con le sue moschee, l’harem, il palazzo dello zar tartaro, il "divano" luogo di giudizio e di discussioni politiche, nella valletta di Mariamderé, a poche centinaia di metri, sorge nella roccia un antico monastero ortodosso, e poco in là si raggiunge a piedi un insediamento rupestre costruito nel Medioevo dagli Alani per sfuggire a successive invasioni, e abitato poi per molti secoli da ebrei, e si vedono ancora le kenesse e il cimitero. A Simferopol vivono molti Caraiti, ebrei di lingua turca, che occupano una posizione sociale elevata.

La famiglia dello zar Nicola II santificata.

Della presenza genovese, finita nel 1475 quando ebbe inizio il Canato di Crimea sostenuto dall’Impero ottomano, visitiamo imponenti fortezze sul mare, come quelle di Sudak, l’antica Caffa, che doveva proteggere commercianti genovesi e abitanti del luogo dalle invasioni frequenti, di Balaclava, a guardia di una baia e di un rifugio scavato sotto il monte che nel dopoguerra era diventato il porto dei sottomarini atomici dell’URSS, e di Feodosia, città misteriosa, al bordo della steppa, dalle belle case neoclassiche circondate da un muretto che ricorda i caravanserragli, che fu un grande mercato degli schiavi, per quattrocento anni .

La popolazione della Crimea è il risultato di stratificazioni millenarie di decine e decine di popoli, descritti fra l’altro da Joseph Roth nei reportage commissionatigli nel 1926 dal Frankfurter Zeitung, raccolti nel libro "Viaggio in Russia".

Fra i fiori di tutti i colori della steppa di inizio giugno, a poca distanza dall’enorme monumento in memoria dei 30.000 soldati nascosti in catacombe e uccisi dal gas dell’esercito nazista, si innalza il tumulo dalla forma a sella e dall’interno assai misterioso di uno zar tartaro.

Dunque questa è la terra che Himmler e Hitler volevano dare ai sudtirolesi, "ripulita" dei suoi abitanti, una terra di vigneti, di meli fra Simferopol e Sebastopoli, montagne che sembrano le Dolomiti, e porti leggendari, città greche e romane e caravanserragli, fiumi, e il Mar Nero, che è intensamente blu, anche se la canzone dice "ciornoie more maiò", o mio mar nero.

E quando, visitata Kerch per vedere lo stretto fra Mar d’Azov e Mar Nero, "confine fra l’Europa e l’Asia", ci spostiamo a occidente lasciando la Crimea, Odessa, la grande città del sud dell’Ucraina, un milione di abitanti, ci coglie di sorpresa. Letta nei "Racconti" di Isaac Babel, cantore del quartiere della Moldavanka abitato dai poveri ebrei (gli ebrei erano il 70 per cento della popolazione della città edificata con piano urbanistico e ingenti mezzi, per decisione di Caterina la Grande verso la fine del Settecento), la capitale meridionale della cultura e dell’arte dell’impero russo, la "Parigi dell’Est" si presenta bellissima, con i grandi boulevard, i palazzi retti dalle cariatidi, i quartieri italiani (quella italiana era nell’Ottocento la seconda comunità), greci, e delle altre quaranta nazionalità organizzate, più le altre.

Odessa, la scalinata Potemkin.

La scalinata del Potemkin, il teatro, i musei d’arte e quello, famoso, di architettura, il Passage in stile liberty, le chiese, le sinagoghe. Una città da camminare per ore, guardando in su verso gli edifici e gli alberi. Nel centro,soprattutto nella via Debrassoskaja, appaiono le grandi firme occidentali, in spazi avveniristici, i compratori sono pochi, la povertà è evidente, ma non di tutti certamente, perché c’è un fermento che riguarda pochi, ma non pochissimi: giovani vestiti con ricercatezza occidentale, passeggini all’ultima moda per bambini di famiglie ricche e in genere giovanissime.

Eppure si sente una sottile inquietudine. Ogni strada ha la sua vecchina, magrissima e spaurita, che sta seduta in un angolo come un mucchietto di stracci, o si rannicchia in un giornale all’approssimarsi della notte fresca e piovosa o chiede aiuto con aria umiliata e persa. "Che vita è - mi dice una, vicino al meraviglioso palazzo Voronzov al termine del Primorsky boulevard, a cui diamo qualche grivna - meglio morire". E le altre si profondono in ringraziamenti alla russa: "Grazie figliolina, ti auguro la felicità".

"L’Ucraina è rovinata dai funzionari dello stato e dalla mancanza di strade" ci ha detto la guida Tatiana, di cultura prodigiosa, dalla vita avventurosa, in un fluentissimo italiano con raffinatezze letterarie.

Non solo, direi. C’è una curiosa somiglianza, nel disinteresse per la vita degli anziani, che unisce luoghi diversi che ho visitato in epoche diverse: la Londra della Thatcher, la Russia di Gorbacev, e ora l’Ucraina dei neocon. "Speriamo bene" - ci dice Nadia, architetta ucraina impegnata nel recupero del ricchissimo patrimonio edilizio della città e disgustata come noi da alcuni "delitti" architettonici, peraltro analoghi a quelli dei nostri architetti senza architettura. A cena ci confessa la sua preoccupazione per l’ucrainizzazione dall’alto che rischia di provocare tensioni fra le popolazioni. Cerco musica yiddish nei negozi che offrono bella musica classica e pessimo rock russo e ucraino. Odessa è il cuore della cultura yiddish, la città degli artisti e dell’ironia: anche i tassisti fin dal primo giorno che ci metti piede ti raccontano barzellette sarcastiche sui loro governanti.

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