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QT n. 3, 10 febbraio 2007 Monitor

Una tragedia troppo da ridere

Un Berretto a sonagli, quello di Bolognini e Lo Monaco, in cui incongruamente prevale il registro comico.

Come si fa a criticare uno spettacolo conclusosi tra applausi scroscianti e ovazioni del pubblico? Sabato 3 febbraio, alla penultima rappresentazione, Sebastiano Lo Monaco e gli attori della sua compagnia apparivano soddisfatti della reazione degli spettatori alla loro messa in scena del pirandelliano Il berretto a sonagli, per la regia di Mauro Bolognini, ripresa dallo stesso Lo Monaco. Ma il critico teatrale, che un certo distacco da ciò cui assiste deve purtroppo coltivarlo, con tutto il rispetto per il gran lavoro che uno spettacolo teatrale comporta, ha la facoltà e il diritto di dire se qualcosa gli sembra non abbia funzionato.

Sebastiano Lo Monaco

Quando si rappresenta un testo teatrale, il regista non è altri che un lettore in più, con la differenza che i lettori di libri rappresentano nel teatro della propria mente, ciò che egli si accinge a realizzare su un palcoscenico concreto. Ora, si dà il caso che uno spettatore possa essere anche un lettore-conoscitore del testo cui assiste, e che quindi si ponga delle domande rispetto alle modalità attuative, l’interpretazione, che la regia ha stabilito per quel testo. Anche se può sembrare odioso e forse ozioso, i confronti si possono fare, sia pur senza fini polemici né moralistici.

Il testo pirandelliano, d’altronde, deve la sua origine ad alcuni filtraggi e passaggi in vari alambicchi, avendo la materia drammatica vista la luce dapprima in due diverse novelle, La verità e Certi obblighi, entrambe del 1912, confluite poi nella scrittura teatrale in dialetto, intitolata ’A birritta cu’ i ciancianeddi, portata in scena da Angelo Musco nel 1917, ed infine nella versione italiana allestita alla fine del 1923. Una lunga gestazione, come si vede, per il testo definitivo, che tuttavia si deve solo ed esclusivamente alla mano e alle intenzioni del suo Autore.

Come la plaquette di presentazione dello spettacolo di Bolognini-Lo Monaco riporta, la messa in scena de Il berretto a sonagli annovera tre importanti e storiche interpretazioni, quelle di Eduardo De Filippo (che dietro suggerimento di Pirandello la tradusse in napoletano nel 1936), Turi Ferro e Salvo Randone, tutte e tre non per caso riprese e archiviate dalla RAI come preziosi documenti storici e poi trasmesse e divulgate in vari modi.

Ecco dunque che nella memoria di uno spettatore si sovrappongono le letture personali e le reminiscenze di spettacoli visti in televisione; ragion per cui, andando a teatro non come tabula rasa, ma come pubblico – diciamo così – informato, ci si siede dinanzi al sipario chiuso con una certa aspettativa: Il berretto a sonagli, che richiama la figura della ”matta”, del pazzo e del giullare, è un’opera drammatica, in cui si sviscera il tema dell’apparenza, della necessità e del diritto di vivere ”civilmente” i rovesci e le angustie dell’esistenza, nel reciproco e pur ipocrita rispetto. È la teoria della maschere umane, in voga precisamente negli anni in cui Pirandello scriveva, e che aveva avuto un precursore in Luigi Chiarelli, con il suo dramma La maschera e il volto (1916), apprezzato dagli artisti futuristi e dagli attori più illuminati come “una svolta decisiva” nel teatro drammatico italiano (V. Talli). E infatti, se abbiamo avuto l’occasione di vedere e rivedere almeno uno dei tre mostri sacri or ora citati – e si noti che si cita la prova d’attore, non la regia – si comprende come al Sociale di Trento possa essersi notata fin dalle prime battute una immediata madornale differenza tra la proposta attuale e quelle precedenti.

In questa ripresa di Lo Monaco fin dall’inizio prevale la gag. Il tono farsesco, i tormentoni e le triplette di scambi dialogici a effetto permeano l’intero spettacolo, quasi fino all’ultima battuta. Cosicché, al termine del primo atto, si è portati a pensare: hanno spinto sul pedale comico per dare maggior peso, nella seconda parte, al dramma di Ciampa, l’uomo tradito dalla moglie, disposto a tollerare la tresca tra lei e il suo principale, a patto che nessuno oltre a loro tre ne sappia nulla.

E invece no. La vis comica dinamizza anche la seconda parte, e Lo Monaco, sul palco, lascia trapelare persino la propria ilarità, nel costruire e tirare per le lunghe tali gag, che nel testo pirandelliano, semplicemente, non esistono. Astuzia di regia o degli attori? Forse, volontà di tirare su il tono di un testo pieno di ironia e sarcasmo; ma che alla lettura, come nell’intepretazione di Salvo Randone (che ben ricordiamo), non lascia mai spazio alla risata liberatoria, bensì ad un amaro sorriso, talora un ghigno, da parte dello spettatore. E così, la bravura di Maria Rosaria Carli, una Beatrice furente e accorata, una ”finta” pazza dalle impressionanti pupille sbarrate nel finale, sembra quasi fuori luogo in una costruzione registica votata al divertimento piuttosto che al dramma.

Naturalmente, con questa impostazione, non si può dire che non siano stati bravi e piacevoli tutti, dall’attore-regista ai comprimari; ma sarà lecito nutrire qualche perplessità riguardo alle concessioni di gusto cabarettistico, e potremmo dire televisivo, tra Totò/Peppino e Zelig, che hanno caratterizzato la rappresentazione. Peraltro, la plaquette proposta agli spettatori, che allude essenzialmente alla tonalità tragica del testo e del protagonista pirandelliano, non sembra realmente in sintonia con quanto visto in scena. Inoltre, chi scrive ha avuto l’impressione che lo stesso Lo Monaco – visto al lavoro l’hanno passato in Uno sguardo dal ponte di tutt’altro rigore drammatico – faticasse a calarsi nella parte tragica, come se il gran lavorio comico lo deconcentrasse. Non è il massimo, per un bravo attore come lui.

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