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QT n. 10, novembre 2010 L’editoriale

Vincitori e vinti

A mente fredda operiamo alcune riflessioni sui risultati delle elezioni alle Comunità di valle. Innanzitutto non ci sembra di poter condividere la sostanziale sottovalutazione della débacle nell’affluenza. Ha votato il 44% degli aventi diritto: meno il dato (seppur fisiologico) di bianche e nulle, meno di 4 trentini su 10; quindi, tolti candidati, amici e parenti e tolta la pletora di addetti ai lavori (consiglieri comunali, circoscrizionali, provinciali, ASUC, BIM, comprensori), si può dire che alla cosiddetta “società civile” delle Comunità di valle è importato pochissimo. Vuoi perché non hanno capito cosa sono (e non lo hanno capito perché cosa siano sul piano giuridico-istituzionale nessuno lo sa, l’indeterminatezza del reale funzionamento è l’unica cosa certa), vuoi perché hanno capito che comunque si tratta di sovrastrutture in aggiunta alle tante strutture istituzionali già esistenti.

Insomma, la maggioranza si è espressa con un netto rifiuto. Il che pone alcuni interrogativi: come potrà funzionare tale complicato, barocco meccanismo istituzionale, partendo da una delegittimazione così vistosa? E quanto è stato responsabile chi ha insistito nel volere questo passaggio (che ricordiamolo, rappresenta una profonda trasformazione istituzionale) così arrischiato?

Vediamo ora il senso dei voti espressi. Nel centrodestra c’è stata la disfatta assoluta del PdL e nessuno sfondamento della Lega, pur data in grande spolvero a livello nazionale. Qui, secondo noi, continuano a giocare i noti motivi che hanno relegato il centrodestra trentino alla sconfitta; assenza di un credibile ceto dirigente locale, peraltro delegittimato dall’interno attraverso l’imposizione romana di segretari inesistenti (Del Tenno) o arruolabili dall’avversario (Malossini); il che peraltro la dice lunga sulla serietà del partito berlusconiano; e infine, circoscritto appeal del messaggio razzista della Lega. Ma questa volta, in più, ha giocato l’ambiguità del messaggio: “Le Comunità sono uno schifo, sono soldi buttati via, però votateci”. E la gente è stata a casa.

Di conseguenza, il centrosinistra ha stravinto. Però, come coalizione, non può esultare: è pur sempre responsabile della perdita di credibilità innescata dal non voto a una riforma incomprensibile. E all’interno della coalizione i risultati sono articolati: c’è chi ha vinto (il Patt), chi ha pareggiato (l’Upt), chi ha perso (il Pd).

Il Patt è il clamoroso vincitore: è stato l’unico partito ad aumentare non solo in percentuale, ma anche in valori assoluti, 3.000 voti più delle provinciali, pur in presenza di un astensionismo record. Su tale risultato ha indubbiamente influito un grande attivismo politico e l’uso spesso spregiudicato di posizioni di potere. Ma non solo. Probabilmente si è verificato un fenomeno analogo a quello avutosi nel 1993, all’epoca del crollo della DC: nel disgregarsi di ideologie più moderne e strutturate, il punto di riferimento rimase, appetibile per molti soprattutto nelle valli, il partito autonomista, con il suo vetusto ma apparentemente incorrotto ideale trentinista. E così oggi: il disgregarsi del PdL, l’inconsistenza nazionale e locale del PD, la riduzione dell’UpT alla mera personalità di Dellai per quanto significativa, il gran cianciare di localismo e federalismo; tutto questo ha ancora rilanciato, per una quota di popolazione, l’attrattività dell’autonomismo.

UpT e PD, secondo noi, vanno visti in parallelo. Non molti mesi fa, all’indomani delle comunali, il PD era trionfante, l’UpT in liquidazione: Dellai, con il suo noto cinismo, lo aveva buttato via come un cleenex sporco, e aveva tentato il solito giochetto del nuovo contenitore con dentro i soliti contenuti, il PdT. Gioco troppo vecchio, destinato al fallimento: gli upitini già pensavano a come riaccasarsi, se con gli autonomisti, oppure con i democratici vincitori.

Ora invece l’UpT, pur perdendo voti, dà segni vistosi di vitalità, riacquista in percentuale; e il PD subisce un tracollo, drammatico in termini di voti, da 39.000 a 26.000. Che è successo?

A nostro avviso una dinamica semplice e prevedibile: il PD ha continuato a veleggiare nel nulla, rinunciando, pur primo partito, ad esprimere una qualsiasi politica (ne parliamo più approfonditamente a p. 25). Anzi, ha delegato in toto a Dellai il compito delle scelte. Il quale non solo sceglieva, tracciando nel bene e nel male con mano ferma la rotta, ma scaricava sugli inetti assessori democratici l’onere delle sue scelte più impopolari (Dalmaso alla scuola, Pacher all’ambiente). Logica, a questo punto, la frana dei democratici, probabilmente solo all’inizio; e la parallela resurrezione, sia pur parziale, del partito del presidente.

Insomma, il voto segue la politica. E chi dalla politica si astiene, non può aspettarsi di continuare ad essere votato.