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Alex Zanotelli e la globalizzazione “buona”

Giorgio Grigolli

Ci vuole Alex e ci vuole Silvano. Dico Zanotelli e Bert. Ricavo questa conclusione dalla recensione al libro su Zanotelli “Sfida alla globalizzazione” (che non ho letto, lo leggerò), firmata da Bert, sull’ultimo numero.

Certo, nessuno può negare al padre comboniano l’autenticità della sua storia, tutta di testimonianza. Occorre chiedergli di fulminare ancora i prepotenti, anche dopo Korogocho. Ma di non vederli sempre e comunque dove ci sia un’ombra della politica, adesso sarebbero "i partiti" dai quali chiede di stare lontani, perché oggi la parola indovinata - lui dice - è solo quella detta dai movimenti. Neanche Bert condivide molto quello "stare lontani" dai partiti. Mi viene in mente Nanni Moretti e mi tiro in là, io.

Piuttosto, dovrebbe dirci (padre Zanotelli) se siano rispondenti alcune evidenze pubblicate ultimamente dalla stampa internazionale, anche a conforto suo. In sostanza, la globalizzazione non è tutta da buttare. Business Week e l’Economist hannodatorisalto, qualche mesefa, adunostudiodellaColumbiaUniversity, inteso a filtrare i dati su povertà e ineguaglianza. Se ne ricava che, negli ultimi venticinque anni, il tasso di coloro che vivono "con un dollaro al giorno" si è ridotto dal 20 al 5 per cento e il tasso di quelli che vivono con "due dollari al giorno" dal 44 al 18 per cento.

Anche a prendere con le pinze questi conteggi, verrebbe da dire che, al passaggio del millennio, c’è stato all’incirca mezzo miliardo di poveri in meno rispetto all’inizio degli anni Settanta. Secondo lo studio, l’esito si deve alla globalizzazione, quanto meno al modo in cui essa ha investito Cina, India ed ex Unione Sovietica. L’area meno toccata dalla globalizzazione, quella africana, annovera invece addirittura il 95 per cento di "poveri a un dollaro al giorno". Il dramma più totale è quello.

L’indagine potrebbe indugiare sui protagonisti positivi degli eventi in corso. A leggere e a sentire, pare si debbano escludere le grandi organizzazioni internazionali, come determinanti. Una tesi sconfortante è in un libro recente dell’ex comandante dell’operazione di peace-keeping Nato in Kosovo, il tenente generale Fabio Mini ("La guerra dopo la guerra", Einaudi).

L’autore ricorda che, a quattro anni e mezzo dalla liberazione del Kosovo, la Banca mondiale ha dichiarato che la metà della popolazione vive ancora sotto la linea della povertà, nonostante la notevole generosità internazionale. Scrive che in Kosovo non sono più di duemila gli individui ("compresi i criminali, i contrabbandieri, i politici, i funzionari e gli imprenditori") che hanno un reddito equiparabile a quello delle circa centomila (!) persone inviate da mezzo mondo per portare lì i nostri aiuti. Mini afferma che "il Kosovo ha dimostrato che l’intervento post-conflitto affidato a una moltitudine di enti e burocrazie è un modo inefficiente che promuove altre inefficienze e produce ulteriori destabilizzazioni". L’unico punto in cui "la burocrazia Onu è veramente un modello di efficienza è nella salvaguardia dei propri funzionari". Ciò va detto anche a proposito di quelli, dai Pecoraro Scanio in là, che pretenderebbero in Iraq una gestione Onu da subito, neanche concedendo in Parlamento una proroga alla permanenza del contingente italiano. Tutto questo, sa molto di alibi. Oltre tutto, a Bagdad l’Onu è chiuso, neanche si vede uno spiraglio di ripensamento.

Vietato generalizzare, ci sono certamente esemplarità anche nelle missioni internazionali. Non è un caso, tuttavia, che nel messaggio di Capodanno il papa abbia esplicitamente chiesto una riforma dell’Onu, oltre l’impianto burocratico. Al momento, rimane fondamentale il ruolo dei mille e mille volontariati, dei missionari che non scappano via, dei medici senza frontiere, trentinamente parlando anche i promotori dei pozzi sahariani, gli amici del sen. Spagnolli in Zimbabwe e nel Burundi. La globalizzazione più valida è sicuramente questa.