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QT n. 6, giugno 2013 Servizi

Datemi un test e vi solleverò il mondo

I test INVALSI per monitorare l’efficienza del sistema scolastico sono sommersi da un mare di critiche. Per lo più ingiustificate

L’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (INVALSI) è l’ente nazionale che si occupa di monitorare le conoscenze e abilità degli studenti e, più in generale, la qualità complessiva dell’offerta formativa delle scuole italiane.

I test predisposti dall’INVALSI sono test di rilevazione degli apprendimenti e sono stati proposti per la prima volta nell’anno scolastico 2006/2007 ad alcuni istituti campione. L’applicazione estesa dei test risale invece al 2008, quando furono associati alla prova nazionale nell’ambito dell’esame di terza media. Fornirono, in quella circostanza, dati molto provvisori. I primi test interessanti sono quelli del 2009, somministrati a livello nazionale alla II e alla V della scuola primaria, prima dell’estensione alla I media (2010) e alla II superiore (2012). Nel 2012, complessivamente, sono state valutate su scala nazionale II e V elementare, I e III media e II superiore.

Lo scopo dei test INVALSI è fornire alle scuole un quadro della propria situazione, in termini di apprendimento, all’interno del sistema scolastico nazionale. Le prove servono, insomma, a monitorare il sistema nazionale d’istruzione e a metterlo potenzialmente a confronto con gli altri sistemi europei.

I dati raccolti attraverso la somministrazione dei test vengono filtrati (dove occorre), analizzati e infine riproposti alle singole scuole: dovrebbero perciò consentire alle scuole stesse (e agli studenti) di definire il grado di competenze acquisito e di fare un’autovalutazione sulla base della quale definire eventuali strategie di correzione dell’azione scolastica. Un’analisi di questo tipo dovrebbe poi fornire al Ministero dell’Istruzione uno strumento per individuare le aree che necessitano di intervento e agire di conseguenza, sia a livello politico che di investimento.

Ciò che andrebbe tenuto a mente, e che nel dibattito pubblico viene invece talvolta mistificato, è che i test INVALSI non valutano il singolo studente, né il singolo insegnante, quanto piuttosto il sistema. Questo dovrebbe essere chiaro a chi li predispone, a chi li somministra e infine a docenti e studenti coinvolti.

Polemizzo, quindi sono

Come in passato, anche le prove appena concluse sono state oggetto di abbondanti polemiche da parte di insegnanti, studenti, genitori e sindacati. I Cobas della scuola hanno organizzato una serie di scioperi di boicottaggio durante il periodo di svolgimento dei test (9-16 maggio), contestando l’idea (presunta) che con un quiz si possa misurare la qualità del lavoro dei docenti, degli studenti, delle istituzioni scolastiche, e al tempo stesso lamentando il carico orario aggiuntivo per gli insegnanti, chiamati a inserire dati nelle apposite maschere elettroniche senza che sia prevista una retribuzione aggiuntiva.

Ad essere pignoli, quella sui salari degli insegnanti, fermi al palo da decenni, è una questione che non dovrebbe avere bisogno di pretesti per essere affrontata con serietà in altre sedi; e che andrebbe fronteggiata come vulnus, non come corollario, da un sindacato un po’ più autorevole e un po’ meno svagato. Ma tant’è.

Comunque sia, più interessante è registrare le lagnanze degli studenti, abbondantemente espresse sui social network. Basterebbe andare su Twitter e cercare l’hashtag #proveinvalsi, oppure dare un’occhiata alla pagina Le Migliori Prove Invalsi su Facebook, per farsene un’idea. Si troverebbero migliaia di interventi, spesso ripetitivi: i ragazzi paiono infatti vittime di un furioso atteggiamento d’emulazione e di una disperata competizione a chi la spara più grossa: a chi suscita più risate per la provocazione o riscuote più consenso per lo sprezzo dimostrato. Tanto per fare un esempio, alcuni non sanno, o fingono di non sapere, se hanno frequentato l’asilo nido: e lo comunicano fieramente, per la pubblica letizia. Questo fenomeno coinvolge, apparentemente, solo i ragazzi più grandi, ossia gli studenti delle superiori: cosa non sorprendente, se si considera che questi hanno un diverso accesso alla rete e che sono adolescenti, con tutte le difficoltà di accettazione (sociale e di sé) che questo si porta dietro.

Le lamentele principali riguardano sia aspetti di carattere generale (il rispetto dell’anonimato, le indicazioni per la compilazione dei questionari), sia domande specifiche (quelle più “pittoresche”). Le contestazioni sembrano a dire il vero un po’ pretestuose; e di conseguenza le obiezioni sono stiracchiate. Dati i toni e l’atteggiamento, pare davvero che i ragazzi si aspettino poco dalla scuola e che non si rendano conto di quanto possa essere importante per loro capire quanto hanno appreso.

Dalle parole degli studenti emerge anche una tendenza a imbrogliare le carte: aprendo il questionario prima del dovuto, o distribuendo crocette a casaccio per fuorviare i risultati. Qualcuno parla di prove fatte a più mani, con i compagni o con l’intervento diretto degli insegnanti; questo fenomeno, definito come cheating, inficia notevolmente i risultati e determina la necessità di applicare ai dati, a valle, dei filtri statistici che consentano di “ripulirli”.

Gli insegnanti non sono esenti da responsabilità: quando appunto viziano i risultati, per la paura (di cui sopra) di fare brutta figura, o quando non sono in grado di comunicare ai ragazzi il senso dei test, facendoli magari passare per una violenta imposizione statalista. O ancora quando, anziché creare un clima collaborativo, ne instaurano uno nefasto di complicità. Come gli insegnanti, non sono dispensate da oneri le famiglie, per le stesse ragioni e più in generale per il supporto educativo e culturale che (non) sono in grado di fornire. Rimane comunque un dubbio su quali meccanismi potrebbero essere messi in pratica, nell’immediato, per riavvicinare gli studenti ai test. In alcuni casi, gli insegnanti li usano per calcolare la media a fine anno e quindi obbligano gli studenti alla concentrazione; ma davvero questo è il solo modo per richiamarli a un atteggiamento di responsabilità? Vorremmo credere che non sia così.

Al di là delle rimostranze telematiche, dal mondo della scuola arrivano d’altro canto anche perplessità più circostanziate. Qualcuno teme infatti che il Ministero voglia far diventare i test INVALSI dei test di prestazione, facendoli entrare nelle verifiche finali (in particolare, nell’esame di maturità); e che addirittura essi possano diventare la base di partenza per i test d’ingresso all’università. C’è poi il sospetto che la volontà sottesa sia quella di creare una classifica tra scuole, e di farlo per giunta attraverso un quiz. Non poche obiezioni coinvolgono infine il trattamento riservato agli studenti con particolari bisogni educativi, considerati discriminati e a forte rischio di frustrazione davanti a domande fuori dalla loro portata.

Riguardo a questi ultimi, la decisione di far partecipare o meno alla prova gli studenti con disabilità gravi (intellettive e non), ed eventualmente secondo quali modalità, spetta al dirigente scolastico. Gli alunni ipovedenti o non vedenti possono utilizzare il formato elettronico della prova o la versione Braille. Possono poi avvalersi di un tempo aggiuntivo di 30 minuti per ciascuna prova ed eventualmente della lettura ad alta voce della stessa da parte di un insegnante di sostegno; e lo stesso vale per gli studenti con disturbi specifici di apprendimento.

D’altronde, la presenza di domande aperte e la strutturazione delle domande stesse fanno sì che il test INVALSI non sia esattamente un brutale quiz a risposta multipla; certo, esso rimane un test standard, con i pregi ed i difetti del caso: ma ciò è sensato fintantoché non è finalizzato alla valutazione individuale dei ragazzi.

Per quanto concerne i piani strategici del Ministero, certamente sostituire anche solo parzialmente gli esami finali con i test INVALSI, sarebbe confusionario e insensato, proprio per la logica che sta alla base di questo tipo di valutazione. Purtroppo solo il tempo potrà dirci se le azioni ministeriali saranno savie e oculate, o al contrario dementi.

Cosa dice il rapporto INVALSI 2012

Venendo ai risultati, i test INVALSI forniscono numeri bruti: ovvero informazioni del tutto simili a quelle che in prima battuta può dare, ad esempio, l’Istat. Non a caso, i rapporti INVALSI sono molto tecnici.

La statistica fornisce una proficua base di dati su cui ragionare. Ma è la loro interpretazione a fornire il quadro complessivo della situazione.

Il rapporto 2012 fa emergere una tendenza allarmante: l’aumento della divergenza, ovvero della divaricazione delle differenze interne. La più evidente è quella tra Nord e Sud, che si rileva già in partenza (II elementare) ma che aumenta inesorabilmente. C’è poi quella tra studenti di origini italiane e di origini straniere (di prima o seconda generazione; per questi ultimi, tuttavia, l’effetto è più tenue); o quella tra alunni “in orario” e ripetenti. Il sistema scolastico non sembra in grado di contrastare i divari, che risultano anzi acuiti col progredire della carriera scolastica degli alunni. E la questione non pare essere didattica, ma sociale.

Le performance nei test migliorano con l’età al Nord, mentre peggiorano al Centro e al Sud, facendo aumentare il divario. Esempio eclatante è quello del Centro, che parte da una situazione abbastanza buona, per composizione della popolazione studentesca e retroterra familiare, e vede poi peggiorare drasticamente i risultati.

Il sostrato socio-economico-culturale, misurato tramite un indicatore ESCSPISA (che prende in considerazione l’occupazione dei genitori, la loro formazione e il benessere economico del nucleo familiare), ha un peso elevato e riesce a spiegare e predire, soprattutto all’aumentare dell’età dei ragazzi, le differenze nei risultati. E ciò vale a livello individuale, ma anche (e a maggior ragione) nella media delle classi. La società, insomma, è statica: il divario tra le classi sociali rimane drammaticamente immutato e la scuola non è in grado di ridurlo o sovvertirlo. Come intervenire? Difficile dirlo, sul breve periodo. Anche in questo caso, tuttavia, gli insegnanti non possono che avere un ruolo di primo piano. Per incidere, però, devono essere meno demotivati e più preparati alle difficoltà; condividere con gli studenti obiettivi credibili e raggiungibili, per indurre negli studenti stessi fiducia nei propri mezzi e voglia di erudirsi.

A margine, per stemperare (si fa per dire) l’immagine cupa appena fornita, vale la pena di riportare alcune annotazioni incentrate sui dati riguardanti le province di Trento e Bolzano. In molti casi, il Trentino fa registrare risultati sopra la media nazionale, sia per l’italiano che per la matematica. In Alto Adige, al contrario, i risultati sono in taluni casi (II e V elementare) inferiori alla media nazionale; inoltre, in II superiore si osserva un’inversione per la quale gli alunni di origini straniere hanno (specialmente in italiano) risultati migliori degli alunni di origini italiane. Nel rapporto INVALSI 2012 si legge anche che i licei e gli istituti tecnici bolzanini hanno risultati particolarmente negativi in italiano. Che siano gli inconvenienti del bilinguismo?

Il senso della valutazione

Ora come ora, le prove INVALSI non sono ancorate ad una metrica costante nel tempo: vale a dire che non consentono di legare una prova all’altra per un singolo studente e quindi di “seguire” il suo percorso scolastico. Su questo si sta però lavorando. Anche in tal caso, solo il tempo darà risposte.

D’altra parte sulla validità del test, come su qualunque valutazione del genere, si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Va però notato che all’interno di ogni singola classe i risultati del test, sia in italiano che in matematica, sono coerenti con i voti che gli alunni conseguono nelle singole materie: ciò permette di ipotizzare che essi riflettano per lo più l’andamento del percorso scolastico e che possano quindi fornire una fotografia credibile della situazione.

I dubbi legati all’effetto del cheating sui dati, a loro volta, vengono in parte fugati. Oltretutto, la presenza di osservatori esterni in classi campione impedisce di imbrogliare e al tempo stesso fa sì che quelle classi forniscano un riferimento per le altre. La presenza di domande che necessitano di una risposta aperta aiuta a sua volta a capire se ci sono stati interventi “esterni”.

A proposito di domande a risposta aperta: proprio esse sono risultate essere (specie in matematica) quelle per le quali gli allievi hanno mostrato livelli di competenza non del tutto adeguati. Sono domande per le quali si richiede allo studente di argomentare, di spiegare perché è stata data una certa risposta. Come indicatore della capacità della scuola di preparare gli studenti, anche questo pare piuttosto preoccupante e dovrebbe far suonare un campanello d’allarme: la formazione delle ragazze e dei ragazzi è vivace e stimolante o si limita alle nozioni? Permette di acquisire competenze o solo conoscenze?

I dati, insomma, forniscono un quadro che merita alcune riflessioni. Sarebbe sbagliato dunque sostenere a priori che le prove INVALSI sono inutili: inutile, piuttosto, è voler negare che la nostra scuola, specialmente al Sud, ha bisogno di aiuto. Al tempo stesso, queste prove non possono servire a valutare direttamente gli insegnanti, ma è indubbio come emerge proprio dai risultati dei test che gli insegnanti ed il loro operato devono in qualche modo essere pesati. Così come vanno valutati con sobrietà l’istituzione scolastica, le scuole e infine gli alunni.

Un sistema che non valuta permette di mantenere le disparità: sociali, di censo, di opportunità. È un sistema conservatore e iniquo. Per le stesse ragioni, le valutazioni devono essere giuste: non inutilmente severe, ma neppure lasche. Esse infatti consentono di verificare la preparazione dello studente, e al tempo stesso lo abituano ad affrontare e superare le difficoltà. Perché in certi casi la facilità non semplifica: abbassare di continuo l’asticella non significa aiutare lo studente, bensì fargli un sopruso.

Si ringrazia per il contributo il prof. Giorgio Bolondi, membro del gruppo di lavoro sul quadro di riferimento per la matematica per le valutazioni nazionali INVALSI e coordinatore della revisione scientifica della parte di matematica del servizio di valutazione nazionale INVALSI.

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