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Successi e paralisi

I 150 anni della socialdemocrazia tedesca

Proprio nei giorni dell’agghiacciante esito governativo delle elezioni italiane, l’inciucione che un avventato ha paragonato a una “große Koalition”, la socialdemocrazia tedesca ha festeggiato il 150° della sua nascita. L’ha fatto insieme a politici anche di altri partiti - fra cui la cancelliera CDU Angela Merkel, che ha definito la Spd “voce inflessibile della democrazia” - e di molti altri Stati, fra cui numerosi presidenti socialdemocratici o socialisti, e con gli storici. L’ha fatto a Lipsia, dove il 23 maggio 1863 Ferdinand Lassalle e i rappresentanti di 11 città della Germania fondarono l’”Allgemeinen Deutschen Arbeiterverein”, l’associazione generale tedesca dei lavoratori, diventata nel 1869 “Partito socialista tedesco dei lavoratori” e nel 1890 “Partito socialdemocratico tedesco”, Spd.

Nel nome stesso si trova la linea ideale che il partito ha sempre portato avanti: l’inscindibile legame fra socialità e democrazia e la centralità dei diritti civili. Alle fine dell’Ottocento, August Bebel, presidente della Spd, pose la lotta contro l’antisemitismo crescente e l’impegno a favore dei diritti delle donne al centro della propria proposta politica. Disse: “Non esiste liberazione dell’umanità senza l’indipendenza sociale e la parità di entrambi i generi”. Nei momenti cruciali della storia tedesca, la socialdemocrazia tedesca ha tenuto fede ai suoi ideali, con sacrifici e scelte coraggiose e difficili. “Il partito socialdemocratico è stato la prima e la più grande iniziativa civica della storia tedesca”, ha scritto Heribert Prantl sulla Süddeutsche Zeitung. “Ha trasformato i proletari in cittadini”. Dalle concessioni dall’alto in campo sociale volute da Bismarck si passava al riconoscimento dei diritti sociali. Ci sono stati i fascismi e le guerra, ma il processo è andato avanti. E oggi tutti sono d’accordo nel riconoscere che la missione è compiuta.

La scelta di una linea pragmatica e riformista ha dato vita alla prima Germania democratica, quella di Weimar, basata sulla coalizione fra socialisti riformisti e borghesi moderati, poi tradita dal loro appoggio al nazismo. Sulle idee della socialdemocrazia si fonda lo stato sociale dell’Europa del dopoguerra e la convinzione oggi accettata da tutti che l’ingiustizia sociale non è per volontà divina, ma può essere combattuta con successo. Nel 1959 a Bad Godesberg, la Spd “si divise dal suo retaggio marxista” ha scritto sullo Spiegel lo storico Heinrich A. Winkler, dando vita a “un partito delle riforme politiche, economiche e sociali”. L’accettazione nel 1960 dei trattati di Adenauer col blocco occidentale, in precedenza combattuti dai socialdemocratici, aprì loro la strada al governo. Il risultato fu la politica realista verso l’est di Willy Brandt, che il 7 dicembre 1970 si inginocchiò davanti al monumento agli eroi del ghetto di Varsavia. Winkler riconosce come un grande merito che tutti i cancellieri socialdemocratici misero “il paese prima del partito”. Un atteggiamento che riconduce a quello di Friedrich Ebert, primo presidente della Repubblica di Weimar e che in Italia oggi è inimmaginabile. Gli anni ‘70 furono gli anni della corsa di questa politica all’abbattimento delle cause strutturali degli svantaggi sociali, gli anni della solidarietà, della giustizia sociale e dell’uguaglianza di opportunità, della proliferazione delle università e dell’impegno per la pace.

Bastano queste poche note a capire che il tentativo di alcuni esponenti dell’ala sociale della Svp (oggi impegnata in tagli dolorosi ai diritti sociali, alla scuola e alla sanità, salvaguardando invece sprechi e favori ai potenti) di autodefinirsi “socialdemocratici”, è possibile solo per la mancata conoscenza dell’essenza storica della socialdemocrazia. Oltretutto una socialdemocrazia in un’ottica di separazione etnica è di per sé un ossimoro.

Il dibattito nato in questa occasione in Germania, e che corrisponde in quel paese all’apertura di una campagna elettorale piena di conseguenze per tutta l’Europa, riguarda dunque tutti i cittadini europei. I quali devono chiedersi perché i partiti di area socialdemocratica, che in passato han cercato di domare il capitalismo, appaiono paralizzati di fronte al capitalismo finanziario, al cinismo e all’avidità dell’élite asociale che ne gode i frutti. “L’ascensore sociale non funziona più in Germania, anzi è partito il progetto di un degrado sociale”, scrive la Süddeutsche Zeitung. L’inarrestabile progresso dell’uguaglianza in Europa, partito nel XIX secolo, si è fermato, la divaricazione fra poveri e ricchi aumenta vertiginosamente. Vale per l’Europa e ancor di più per l’Italia, dove l’ingiustizia si coniuga con la corruzione della classe politica e dove i conti dello stato si fondano sull’accanimento sui pochi contribuenti onesti e la protezione dei ladri. Vale anche per il Sudtirolo, dove la distanza fra ricchi e poveri cresce e l’infedeltà fiscale e la diversa rappresentanza etnica distorcono gli effetti degli interventi del welfare.

La Spd ha scelto Lipsia per i festeggiamenti: il capoluogo della Sassonia, culla della socialdemocrazia, dove oggi il partito non arriva al 15%. Sarà capace la socialdemocrazia europea di affrontare le sfide nel nome dei cittadini o continuerà a proporre slogan consumati, giocando il ruolo di monumento, orgoglioso di se stesso e del proprio passato, ma indifferente di fronte alla disperazione dei popoli?

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