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Joseph Kosinski: “Oblivion”

Un film grigio

“Oblivion”

Ho sempre avuto un problema con la fantascienza: non mi ci sono mai abbandonato, mi sono sempre chiesto se certe fantasie erano in qualche modo possibili, logiche o almeno probabili. Scannerizzato dalla razionalità, il fantastico se ne andava in malora. Ma poi è arrivata la fantascienza dei mondi vicini, nel tempo e nello spazio, e le cose sono cambiate. Così “Blade Runner”, di Ridley Scott, è un film veramente bello, mentre “Prometeo” di Ridley Scott, è un film veramente brutto. Comunque penso ai film di fantascienza come spaventosi o meravigliosi, spaventosamente meravigliosi, meravigliosamente spaventosi. Insomma, ho pensieri e sensazioni di una certa complessità in merito. Ho l’impressione che gli americani non si facciano questi problemi, per loro il mondo va avanti in forma dualistica. Conflittuale binarietà inclusiva: buoni cattivi, vincenti perdenti, sani malati, comunisti anticomunisti, cowboy indiani, realtà fantascienza.

Ma se non ti piacciono o non concepisci le sfumature e le complessità allora cosa è “Oblivion”? A pensarci bene, non dovrebbe stupire che un film sull’apocalisse, la distruzione del mondo, o meglio, degli Stati Uniti, visto che i residui che spuntano ovunque sono solo loro, sia grigio. La distruzione della contrapposizione bianco/nero è il grigio.

“Oblivion” è tutto grigio. La sfumatura per eccellenza. Grigio, ma non come riflesso di un’angosciata neutra esistenza, piuttosto una questione di stile. Il grigio chiaro va molto di moda quest’anno, fa molto fashion, si diceva negli anni ‘80, quelli peggiori. Così la stilosissima casa del protagonista Tom Cruise è grigia, il suoi vestiti sono grigi, anche quelli della sua compagna, le sue armi, il suo mezzo di trasporto, gli schermi visivi sono grigi, il cielo in cui vive è grigio. I suoi sogni sono in bianco e nero, quindi molto grigi (ma davvero ha ancora senso raccontare il recente passato di uomo che vive nel 2073 in bianco e nero?). Perfino la canottiera del personaggio che sconvolgerà la sua vita è grigia. È un film grigio. Di quel grigio che non fa paura e non affascina, si fa contemplare, non coinvolge, né suscita particolari emozioni, non è bello e non fa schifo, fa grigio. Vi chiedete perché cado nel tranello di fermarmi alla superficie estetica? Perché “Oblivion”, dopo aver esaurito i suoi gadget contemplativi, la tira in lungo con la sua gradevole ma vuota ricostruzione digitale che deriva dai comics e scopre l’unica vera carta fantastica solo alla fine. Insomma, ci mette 156 minuti a raccontarti una storia che Fredric Brown ci aveva messo una pagina. Una. Se uscire dal dualismo americano implica la sua distruzione per piazzarsi stoicamente in mezzo a contemplare l’estetica tecnologia residua derivata, allora non so, non se ne viene fuori. Comunque prepariamoci, la vita degli umani non ha senso senza contrasti. E infatti l’apocalisse è grigia e il rimpasto di tutto dà un’essenza grigia.

Ma soprattutto la colpa di tutto è ancora una volta degli altri, le macchine cattive, gli alieni che ci replicano. Noi non c’entriamo, siamo i buoni.

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