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Fra buonisti e picchiatori

Tutte storie accadute in meno di due mesi. La prima, risalente al 9 gennaio, vede un padre romano che ossessiona il figlio con la sua passione per la Juventus, bombardandolo fin dalla nascita con sciarpe, pupazzetti e bandiere bianconere; diventato grandicello, lo costringe a cantare l’inno della squadra e a indossarne la maglia (col n.12 - precisa il cronista - quella di Giovinco). Il pupo, arrivato ai 6 anni, è al limite della sopportazione (tanto più che l’indottrinamento paterno non ha avuto effetto: la sua squadra del cuore è la Fiorentina) e un bel giorno denuncia il padre a Telefono Azzurro, dopo di che arrivano poliziotti e assistente sociale. Con quali conseguenze, non è dato sapere.

Meno folkloristica la successiva storia di un bimbo del riminese (9 anni), che telefona ai carabinieri denunciando le percosse ricevute dalla madre. I militi accorrono, scoprono che in realtà le percosse sono una singola sberla che la donna ha affibbiato al figlio dopo avere scoperto che da due giorni marinava la scuola; e solidarizzano con lei.

E ancora i due casi trentini, verificatisi a pochi giorni di distanza, entrambi indotti da brutte pagelle.

A Rovereto, uno scapaccione paterno spinge il figlio (in prima superiore) alla fuga da casa e alla denuncia del padre per maltrattamenti. Al che i poliziotti informano la magistratura, che affida provvisoriamente il ragazzo a una comunità.

Dalla Val di Non, una vicenda appena un po’ diversa: brutta pagella, schiaffo del padre e proteste della madre, che quindi chiama i carabinieri, e questi denunciano l’uomo. Ma qui l’interpretazione della storia diventa difficile, perché il racconto del Trentino fa pensare a una vicenda abbastanza normale (a parte l’intervento della forza pubblica), mentre L’Adige parla di un labbro spaccato (il ragazzo) e di una madre con una spalla slogata nel corso della baruffa col marito.

Basandosi sulla versione meno cruenta, lo psicoterapeuta Giuseppe Raspadori svolge alcune interessanti considerazioni sulla - a volte - eccessiva intromissione di poliziotti e magistrati “nelle delicate dinamiche su cui si regge la convivenza all’interno delle famiglie”, perché in realtà “se si è arrivati a una denuncia, quello è il segno del degrado di una situazione familiare più generale in cui la brutta pagella del figlio è solo un pretesto, un falso problema. Quello vero, come quasi sempre in questi casi, riguarda le relazioni di coppia e la convivenza familiare”.

Ma allora le sberle ci possono stare? Dipende appunto - osserva Raspadori - dai rapporti esistenti fra i genitori. In una situazione tranquilla, “da un punto di vista psicologico e pedagogico, a patto che le sberle non costituiscano un metodo sistematico, non vi sono conseguenze sulla psiche di un bambino, al quale anzi appartiene la comprensione concreta delle cose, anche delle botte se queste hanno un senso... Se un ragazzo non può giocare su eventuali conflitti aperti tra padre e madre, si tiene la sua sberla e buonanotte”.

Insomma, se questi conflitti finiscono in ospedale è un conto e ben vengano poliziotti e giudici; in caso contrario, è inaccettabile “questa ideologia del continuare a entrare a piedi uniti in quello che avviene nelle famiglie, mobilitando enti, assistenti e psicologi. Si entra in un gorgo dal quale poi non si esce più”.

Ben diverse e decisamente manichee le reazioni di chi ha letto - sul web - la versione violenta della storia. Di fronte a sia pur modeste ferite, prevalgono naturalmente i “buonisti”, che deprecano ogni violenza; ma non mancano i fans delle sberle ad ogni costo: “Sante sberle - commenta Norberto - Basta con il buonismo ed il pietismo. Ringrazio ancora i miei genitori per avermele date quando me le meritavo ed adesso ai miei figli, se non si comportano bene e con le buone non la capiscono, una sberla gliela dò!” E Toso, perentorio: “Chi da piccolo ha preso dei ceffoni meritati dai genitori concorda nel ringraziarli”. Per Giorgio, le botte erano quotidiane, come una medicina da prendere con regolarità, e ne ringrazia i genitori.

Fino allo scomposto sfogo di Attilio, che allarga a suo modo il discorso: “Smettiamola, siamo diventati molli, con il permissivismo dilagante non viene rispettata nessuna istituzione. Un esempio è la scuola dove i poveri docenti che hanno una coscienza vengono maltrattati dalle famiglie, mentre quelli che si prostrano ai piedi dei genitori la passano liscia... Questo però non è il modo di educare. Non c’è più rispetto”.

Dal che si deduce - oltre tutto - l’ennesima conferma che lo strumento del web spesso ostacola, oltre alla correttezza ortografica, anche le posizioni sfumate. E raziocinanti.

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