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L’Asia centrale alla ribalta

Rischi, ricchezze e prospettive di una nuova terra di conquista

Oggi l’attenzione dei media è concentrata sull’area di crisi n.1 del pianeta: il confine afghano-pakistano. Siamo a metà strada tra l’Asia Meridionale dove domina l’India - una delle tre o quattro grandi potenze di domani - e l’Asia Centrale turcofona, un’area vastissima, ignorata dal grande pubblico, ma al centro di molte trame geopolitiche. La Russia zarista la conosceva come Turkestan o terra dei turchi, ove sin dal ‘500 si trovano gli emirati di Bukhara e di Khiva (nell’attuale Uzbekistan) che poi nell’800, al tempo di Caterina II, finirono sotto il controllo russo iniziando così a europeizzarsi. Nel passaggio dalla Russia zarista a quella sovietica nacquero infine 4 repubbliche socialiste turche, dai nomi esotici: Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan, più il Tajikistan, che però è a prevalenza iranica. Questi Paesi, fatti oggetto di un’ampia russificazione (persino le loro lingue erano scritte fino a poco fa in alfabeto cirillico), hanno ereditato dall’URSS buone infrastrutture (strade, scuole, ospedali) e una mentalità laica, forse la più aperta che sia dato trovare nel variegato mondo musulmano; ciò anche grazie alla forte influenza locale di confraternite mistiche ispirate al sufismo, largamente tollerante e tradizionalmente inviso ai fondamentalisti.

Ma perché parlare oggi del Turkestan? Ogni tanto nella a noi più familiare Turchia europea risorge, vecchia tentazione, l’idea di voltare le spalle all’ “altezzosa” Europa per guardare al sogno-mito del “Turan” o “Grande Turchia”, che andrebbe da Istanbul a est, passando appunto per l’Asia Centrale turcofona, sino a ricomprendere idealmente i turchi Uighuri del Turkestan Orientale, oggi posti sotto il dominio cinese (qui più spietato, perché ignorato dai media, che in Tibet).

Ma l’Asia Centrale turca oggi è in realtà al centro di mire e appetiti assai più concreti. Turkmenistan e Uzbekistan possiedono alcune tra le maggiori riserve mondiali di gas e petrolio, che fino a ieri dovevano passare forzatamente per oleodotti e gasdotti che attraversavano la Russia, e che ora invece stanno per essere avviati, con l’aiuto interessato di USA e Europa, per un tragitto meridionale, esterno al territorio russo, sino ai porti mediterranei della Turchia. Se si aggiunge che il Kirghizistan ha forse la più grande riserva mondiale di uranio, che il Kazakistan ha ereditato dall’URSS strutture avanzate di ricerca e produzione di materiale fissile, si comprende come questa zona rivesta un interesse cruciale nel perenne Grande Gioco delle potenze, ieri tra Inghilterra a Russia, oggi tra USA e Cina.

Con l’inizio della guerra in Afghanistan, gli USA misero a segno alcuni punti importanti, riuscendo a stabilire alcune basi aeree in Uzbekistan e in altri Stati dell’area, con il pretesto di agevolare i rifornimenti delle truppe in guerra contro Bin Laden e accoliti. La Cina profittava strumentalmente della guerra al terrorismo, in cui ostentatamente si dichiarava solidale con Bush, per dare un ulteriore giro di vite agli autonomisti Uighuri del Turkestan Orientale, musulmani ma non certo terroristi; la Russia intanto finiva di regolare i conti con i “turchi” di casa sua, ossia i Ceceni. Ma, sistemati i problemi domestici, Cina e Russia convenivano sulla necessità di bloccare l’espansionismo americano nell’area. La mossa successiva era consequenziale: i Paesi turcofoni ex-sovietici, attraverso il Patto di Shangai in cui erano entrati già a fine millennio, venivano moralmente persuasi a sloggiare gli americani dalle summenzionate basi e a riallinearsi così alle esigenze geopolitiche di Cina e Russia. L’Occidente euroamericano non è restato a guardare, bensì ha sinora cercato di legare saldamente questi Paesi, in cui permane un certo sentimento antirusso, ai propri interessi. Come? Soprattutto finanziando costosi progetti di estrazione in nuovi campi petroliferi (in Uzbekistan, ad esempio, dove opera il nostro ENI come capocommessa di un consorzio di compagnie euro-americane), collaborando a piani di sviluppo industriale e ancora, come s’è detto, realizzando l’oleodotto che porterà risorse energetiche in Europa aggirando la Russia.

Le repubbliche turcofone, regimi populisti in mano ad avide élites ex-comuniste, hanno afferrato al volo l’occasione storica che si offriva loro, cercando di lucrare a più non posso sulle interessate (e concorrenti) attenzioni sia dell’Occidente euro-americano che del Patto di Shangai russo-cinese. Finché dura...