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Il ritorno dello zar

I successi del presidente russo stanno modificando il quadro internazionale

Il 2015 sarà certamente ricordato come l’anno del ritorno della Russia da grande protagonista sulla scena mondiale. Dopo la grana dell’Ucraina, con il corredo di pesantissime sanzioni internazionali che l’avevano colpita, la Russia di Putin sembrava messa all’angolo: persino la Germania della Merkel si era piegata obtorto collo al diktat americano, per non parlare degli altri stati europei, compresa la nostra Italia che, da Andreotti a Berlusconi e oltre, aveva sempre commerciato e fatto affari d’oro con l’Est Europa.

Putin ha saputo rientrare in gioco sfruttando abilmente le sue carte su alcuni dossier molto delicati e particolarmente cari all’America di Obama: Iran e Siria. Com’è noto, in entrambi i casi la diplomazia americana era finita su un binario morto, con uno sfondo pieno di incognite: dall’atomica iraniana (con le minacce israeliane di attacchi preventivi), all’avanzata dell’ISIS tra Irak e Siria.

Non v’è osservatore che non abbia compreso il ruolo cruciale della Russia sul primo dossier, quello iraniano, dove Putin ha saputo giocare di fioretto spianando la strada all’accordo: le garanzie di Mosca, molto più delle promesse iraniane, hanno convinto gli americani a firmare. Ma è in Siria che l’Orso russo ha sferrato la zampata decisiva, incurante delle deboli proteste e della valanga di sospetti suscitati dall’intervento militare a fianco di Assad. All’epoca di Nasser la marina militare sovietica disponeva di basi militari in tutto il Mediterraneo, dall’Egitto al Maghreb; poi, dopo la fine del comunismo, si era ridotta a una modesta base di rifornimenti a Tartus, sulla costa siriana. Le notizie recenti confermano che questa base è stata ampliata e che altre meno note sono state potenziate o create ex-novo, ricevendo grandi quantità di materiali e attrezzature belliche. La Russia ha ormai una presenza militare in Siria che le permetterà non solo di puntellare il traballante regime dell’amico Assad (scopo dichiarato), ma anche (e soprattutto) di organizzare una presenza armata di tutto rispetto nella regione, degna dello status di una potenza planetaria, “imperiale”, status che gli USA negli ultimi trent’anni avevano creduto di monopolizzare, o al più condividere con la Cina.

Se Putin ci aiuta

Il tutto con il benestare (e la felicità, a malapena trattenuta) dell’Europa, che vede finalmente qualcuno disposto a mandare soldati a morire per difenderci dall’ISIS e dai problemi connessi (invasione di migranti siriani, ecc.); e persino con il benestare di Israele che, con qualche ritardo, comincia a rendersi conto che un califfato islamico vincente le farebbe rimpiangere tutte le occasioni di pace perdute da Arafat in poi. Putin, si comincia a sperare nelle cancellerie europee, potrebbe cavarci le castagne dal fuoco, fermando l’ISIS e bloccando il flusso di disperati che ci arrivano ogni giorno dalla Siria e dall’Irak; Israele, che per realpolitik forse stava già valutando l’opzione di dare una mano sottobanco all’odiato Assad, si vede sollevata; l’America per il momento vede allontanarsi lo spettro di un coinvolgimento più diretto (ossia con truppe sul terreno) nella regione.

Come si sa, infatti, mandare dei droni a bombardare l’ISIS è cosa gestibile, anche se non risolutiva; ma mandare i fanti a morire nel deserto farebbe infuriare l’opinione pubblica americana e perdere le elezioni senza sì e senza ma. Disgraziatamente per ricacciare indietro l’ISIS occorrono proprio i fanti...

La domanda è: davvero Putin ha organizzato la spedizione militare in Siria allo scopo di contenere l’ISIS e cavare le castagne dal fuoco a Europa, Israele e America? A ben vedere, siamo di fronte a una svolta nella geopolitica di questo secondo decennio del XXI secolo. In America spirano forti venti conservatori, da sempre contrari a inguaiarsi troppo oltreoceano; l’isolazionismo certo oggi è inimmaginabile, ma l’interventismo dei Bush padre e figlio ormai è un ricordo.

L’America rinuncia alla sua vocazione imperiale? Qualcuno lo ipotizza, ma probabilmente siamo di fronte a un ri-orientamento delle sue strategie, in cui inevitabilmente l’Europa sarà chiamata a fare (molto) di più. La possibile autosufficienza energetica americana (grazie allo shale oil) ha reso meno strategico lo scacchiere mediorientale, che invece resta vitale per noi europei. Putin per primo lo ha capito e ora ha una carta potente da giocare: la Russia, cari europei, se volete vi proteggerà dall’ISIS e fermerà l’invasione dei profughi. Già, ma in cambio di che? Ecco la seconda, cruciale, domanda.

Qualcuno in Europa, che troppo presto scodinzolando aveva aderito alle sanzioni anti-Russia per il caso Ucraina, dovrà pure domandarsi in queste settimane se abbia senso inimicarsi il nostro potente vicino dell’Est, oggi pronto a darci una mano, mentre la stanca potenza d’oltre Atlantico dubita apertamente se valga la pena sprecare soldi e uomini in Medio Oriente per gli imbelli europei.

Chi esce a pezzi da questi muovi scenari sono probabilmente le diplomazie dei paesi arabi sunniti (e della Turchia), che hanno a lungo flirtato con l’ISIS in funzione anti-Iran per accorgersi, ora, che il ruolo dell’apprendista stregone può essere pericoloso. Oltretutto lo stato-guida dello sciismo, l’Iran appunto, si è rifatto una credibilità internazionale e ora può far vedere urbi et orbi quello che aveva fatto finora sottobanco: collaborare sul campo con gli americani alla stabilizzazione del Medio Oriente (certamente parte del prezzo dell’accordo nucleare concesso da Obama). L’Iran da solo faceva paura agli stati sunniti, figuriamoci ora che ha la Russia a fianco e un tacito appoggio da Obama... Quello che fino a poco tempo fa era inimmaginabile si è realizzato in pochi mesi: USA, Russia e Iran stanno cercando alla luce del sole, in spirito di guardinga ma sostanziale collaborazione, di risettare il teatro più caldo della scena mondiale. Mentre l’Arabia Saudita e la Turchia, moralmente squalificate dalla loro ambigua politica sul califfato, si rodono impotenti e la UE, come sempre, sta alla finestra...

Tuttavia questi sviluppi recenti ci fanno comprendere anche qualcosa di più. L’America ha perso l’iniziativa nel Medio Oriente ed è costretta a far rientrare la Russia nei grandi giochi. La geopolitica, insomma, è tornata tripolare, USA e Cina prendono atto del ritorno dello zar.

Aver lasciato marcire la questione palestinese dando via libera alla prepotenza cieca di Israele; aver perso tempo accanendosi sull’Iran per accondiscendere alle pretese dei paesi arabi sunniti; aver tollerato a lungo le ambiguità della Turchia di Erdogan, pronta a pugnalare alle spalle i kurdi piuttosto che combattere l’ISIS; non avere fermato Sarkozy nella sua folle guerra a Gheddafi: tutti errori che hanno spianato la strada alla Russia che ora si muove agevolmente sul teatro mediorientale, potendo contare oltretutto sull’ampia retrovia dell’amico iraniano, riabilitato dagli accordi sul nucleare e pronto ad assumere un ruolo forte di potenza regionale.

La novità più grossa, in effetti, sta proprio qui, e certamente fa tremare oggi gli stati arabi sunniti: nel Medio Oriente il tandem Russia-Iran è entrato alla grande sulla scena e promette di stabilizzare l’area (certamente non per soccorrere noi poveri europei che subiamo l’esodo dalla Siria...). Dall’altra parte si osserva un certo sconcerto: USA e Israele sono oggi palesemente a traino dell’iniziativa russa e stanno - si direbbe - sulla difensiva. Gli USA collaborano sul campo con i pasdaran iraniani in azione in Irak contro l’ISIS e Israele ha persino benedetto l’intervento di Putin in Siria. Ma è indubbio che gli Stati Uniti e Israele siano a disagio in questa situazione in cui subiscono l’iniziativa altrui. E stanno probabilmente studiando una qualche contromossa che permetta di non lasciare campo libero al tandem Russia-Iran.

Anche l’Europa dovrà fare la sua parte

La posta in gioco è il cuore del Medio Oriente, quel territorio posto tra Mesopotamia e Mediterraneo che da epoche antiche è stato via via oggetto di contesa tra sumeri, accadi, assiri, babilonesi, persiani, arabi, cristiani (crociati), turchi (ottomani), francesi, inglesi e, oggi, è la posta in gioco tra russi e americani (sull’argomento vedi il mio intervento “Percorsi indo-mediterranei: trascorsi e ricorsi.

È verosimile che presto la Turchia - il paese con le più robuste forze armate nella regione e sempre tentato dal revanscismo neo-ottomano - sia chiamata a svolgere un ruolo crescente sul terreno: ufficialmente per combattere l’ISIS, di fatto per stoppare o contenere l’iniziativa russo-iraniana. Ma anche l’Europa sarà chiamata a dare un contributo pesante.

La Francia di Hollande e l’Inghilterra di Cameron hanno già annunciato che i loro kommandos e i bombardieri sono in Siria a colpire le posizioni dei ribelli islamisti (filo-ISIS) al regime di Assad.

Per una volta la Francia, dopo l’errore fatto con Gheddafi, ha capito da che parte sta il vero nemico. Ora probabilmente toccherà anche al resto dei paesi europei fare la propria parte, perché la nuova politica americana nell’area spinge proprio in questa direzione: metteranno aerei (droni), intelligence e armi, ma i fanti e i piloti dovranno metterli gli altri. Ossia, in primis, noi europei.

È chiaro a tutti infatti che non basterà fare la guerra agli scafisti per bloccare l’esodo biblico verso l’Europa. Occorrerà fare una guerra aperta all’ISIS, coinvolgendo il più possibile i paesi della regione; ma è dubbio che la cosa riesca se l’Europa non sarà pronta a pagare anch’essa il suo tributo di sangue e lacrime. L’America non è più disposta a farlo.