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Due film sulla crisi

“Le ultime cose” di Irene Dionisio, “Io, Daniel Blake” di Ken Loach

Mi pare evidente che l’attuale crisi economica non è solo una fase momentanea del processo capitalistico e va al di là del transitorio impoverimento di una parte della popolazione, della chiusura di fabbriche e attività, della mancata ripresa dei consumi e del Pil nazionale che non cresce. È una crisi non determinata dalle popolazioni, ma dagli spostamenti di capitali e produzioni, dalle grandi speculazioni mondiali. Una crisi che l’Italia non sa risolvere, che grava pesantemente sulle classi più deboli, ma che soprattutto è indice della decadenza complessiva delle società occidentali. Anche quelle apparentemente meno colpite, come l’Inghilterra. È una crisi in cui il lato più aggressivo e speculativo del capitalismo ha vinto, dettando e imponendo non solo consumi, ma anche politiche economiche, finanziarie e sociali locali e globali. Lo Stato ha sempre meno possibilità, capacità (volontà?) di governare questa economia che corrompe e compra la politica ad alti livelli e ricatta le popolazioni in un binomio conflittuale tra lavoro e diritti. Il tutto si traduce un banale assioma: chi ha soldi, diritti e potere ne ha sempre di più, chi non ne ha, ne ha sempre di meno. Anche perché lo stato sociale non riesce più a governare queste sperequazioni, a fornire servizi suppletivi, a togliere denaro a chi ne accumula quantità incredibilmente superiori alle sue necessità per darne a chi non riesce ad averne abbastanza per sopravvivere. Né in termini di stipendi, né in servizi. In definitiva nemmeno a garantire sicurezza e giusta agiatezza a chi ha lavorato per una vita. È un discorso semplificato e grezzo, ma è così e certo cinema prova a dircelo alla sua maniera.

“Le ultime cose”

In “Le ultime cose” di Irene Dionisio, visto al festival di Venezia nella sezione “Settimana della critica”, tutto ruota attorno al banco dei pegni di Torino, dove il giovane perito neoassunto Stefano si scontra con un ambiente ambiguo e disonesto. Dall’altra parte del bancone i clienti mostrano uno spaccato diversificato di popolazione in inesorabile discesa verso la povertà. Il film avrebbe dovuto essere un documentario, ma per problemi di autorizzazioni si è trasformato in un film di fiction, basato sulle storie vere e sulla documentazione raccolta. Nell’ambiente ristretto del banco, quasi una sorta di prigione dalla quale è difficile evadere, si alternano le storie di un anziano costretto ad assecondare le richieste di un parente ricettatore, una giovane trans in fuga dal suo passato, una madre obbligata a svendere i gioielli. È impressionante la corrispondenza fra attori professionisti (decisamente bravi) e molti reali frequentatori del banco. Le riprese, effettuate tutte con lo stesso obiettivo corto addosso ai protagonisti, determinano un clima avviluppante, stretto sui corpi di persone in conflitto tra dignità e bisogno, sensualità e decadenza, moralità critica e coinvolgimento nel meccanismo. Senza eventi clamorosi il racconto si sviluppa sostenuto da una tensione che trasmette una sotterranea costante inquietudine, prima di collassare in parte del finale. Nella miriade di particolari curati e dettagli significativi, è emblematica la sequenza dell’asta in cui le ultime cose, pagate un quarto del loro valore, di tanta gente impoverita vengono legalmente vendute da un ente autorizzato dallo Stato a una selezione di riccastri che possono permettersi cifre ed azzardi audaci. Con guadagno e soddisfazione di tutti, loro.

Come nel primo film della Dionisio, anche nell’ultimo di Ken Loach ad uccidere, ancor più della povertà, è la perdita della dignità. L’angoscia di chi ha lavorato una vita per garantirsi un futuro e in una fase di debolezza non trova più il giusto dovuto.

“Io, Daniel Blake”

Io, Daniel Blake” fin dal titolo sottolinea forte l’elemento umano. Il caso è per Loach paradigmatico: Daniel Blake, un carpentiere quasi sessantenne, ha avuto un infarto sul lavoro. Per il servizio sanitario non può lavorare e deve avere il sussidio per malattia. Per la previdenza (privatizzata e appaltata ad una compagnia statunitense) invece non ci sono i parametri della malattia e non ha diritto al sussidio. Un comma 22 che mostra come, per effetto delle privatizzazioni, che ragionano in termini schematico/economici piuttosto che umani, i funzionari dei servizi non guardano, non ascoltano, non considerano più le persone e i casi ma, totalmente disumanizzati, solo i loro predefiniti e ottusi parametri e regole.

Durante una delle sue frustranti visite all’ufficio di collocamento Daniel incontra Katie, giovane madre single con due figli piccoli e senza lavoro. Stesso trattamento anche per lei e nella contingenza nasce un’amicizia e una solidarietà che darà brevi momenti di serenità, senza però aiutarli veramente ad uscire dal loro status. Ma se per Katie, che abdica alla sua dignità fino a prostituirsi, si intravvede una possibilità d’uscita, per Daniel no. È troppo lo stress, la pressione, l’ansia, la paura, la fragilità, le sue incapacità e idiosincrasie con la contemporaneità, insomma l’accumulo di conflitti con se stesso per salvare la dignità.

Un film sofferto e tragico e bello e necessario, anche se a tratti un po’ prevedibile e programmatico, al punto di togliere forza al suo messaggio e alla sua denuncia. Comunque non banale o ideologico, ma onestamente critico verso una società ingiusta e idiota come la nostra. Certo non manca la disillusione. Non esistono più strumenti di lotta condivisi per contrapporsi al sistema, sconfitti dal totale trionfo dell’individualismo. Ma il film di Loach va anche oltre, mostrando come ormai non si sa neanche più a chi contrapporsi.

Ultima annotazione: il film di Loach ha vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes, quello della Dionisio niente a Venezia.

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