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Quando una donna chiama

L’esperienza di un centro antiviolenza nato a Cagliari negli anni 90, quando ancora era considerato inopportuno impicciarsi tra moglie e marito. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Silvana Maniscalco e Antonella Pirastru, Joan Haimi

Com’è incominciata l’attività dell’associazione?

Silvana: Siamo nati nel 1994. Allora in Italia non era facile parlare di violenza contro le donne, vigeva la formula “Tra moglie e marito non mettere il dito”. In Sardegna non esisteva alcuna associazione e anche a livello nazionale c’era poco. I nostri primi contatti furono con Stefania Bartocetti, presidente del Telefono Rosa di Milano, che in quegli anni produsse uno dei primi testi che trattava la tematica della violenza contro le donne. Così, con un gruppo di amiche, che dura tuttora, abbiamo deciso di fare qualcosa.

Fin da subito abbiamo capito che la tematica era delicata, quindi abbiamo voluto anzitutto formarci. Per 5 anni tutte le settimane ci siamo incontrate tra noi, ma anche con dei formatori sulle varie discipline. Nel ‘99 abbiamo aperto il primo Centro qui a Cagliari. Fornivamo soprattutto assistenza telefonica, anche se nella’associazione c’erano già avvocate, psicologhe, assistenti sociali. Finalmente nel 2000 siamo diventare un “Centro antiviolenza”. Intanto anche a livello nazionale cominciavano a uscire dei dati, assieme alla consapevolezza che le denunce arrivate alle forze dell’ordine erano solo la punta dell’iceberg. Si trattava dunque di rompere il silenzio e anche combattere la scarsa consapevolezza da parte femminile. Non bastava assistere la vittima, serviva anche una rivoluzione culturale: era inutile continuare a fare il nostro intervento se non cambiava niente nella società.

Quindi avete iniziato anche un lavoro nelle scuole.

Silvana: Quando abbiamo capito che c’era soprattutto un lavoro culturale da fare, ci siamo impegnate in un intervento massiccio nelle scuole di ogni ordine e grado. La tematica spaventava anche noi: sapevamo di andare a parlare di qualcosa di molto forte, che poteva anche sconvolgere i ragazzi, tanto più se vivevano questa situazione a casa. Con gli anni la nostra competenza è aumentata e oggi facciamo interventi fin dalla scuola primaria.

Antonella: Coi piccoli è importante trovare l’approccio giusto. Io uso dei giochi grammaticali. Poi lavoriamo molto sulla ‘peer education’: una volta che i ragazzini hanno imparato il rispetto, non solo per le donne ma per tutti, questa loro competenza scavalca le mura scolastiche e arriva in famiglia. Purtroppo gli adulti non sempre sono di aiuto. Mi ha colpito un bambino di seconda che, intervistato da un giornalista, ha risposto: “Gli adulti devono prendere esempio da noi bambini, perché noi le bambine non le picchiamo!”.

Con i più piccoli io parto sempre da una specie di brain-storming: riportiamo sulla lavagna le parole che vengono evocate dalla parola “violenza”. Dopo di che raccogliamo le associazioni proposte, dividendo tra “sentimento” e “azioni”, per esempio rabbia, dolore, vendetta… Poi uso molto acrostici e mesostici. Con l’acrostico, si parte da una parola, per esempio “amore” e poi si prendono le singole lettere che la compongono: a-m-o-r-e; queste diventano le iniziali di nuove parole. Col mesostico invece si mette in verticale una parola e poi da ogni singola lettera devono venir fuori delle parole in orizzontale.Usiamo molto le riviste: ritagliano, incollano... Durante queste attività fanno gruppo, socializzano, si scambiano le idee.

Avete un servizio aperto 24 ore su 24?

Silvana: Se una donna chiama c’è sempre un’operatrice che risponde, anche di notte, di domenica, durante le feste. Poi la telefonata viene riportata alle professioniste di cui il Centro è dotato e cioè avvocate, psicologhe, assistenti sociali. Donna Ceteris nel 2015 ha fatto quasi 1.500 interventi in un anno. Purtroppo non posso dire che queste iniziative abbiano portato alla soluzione del problema o che le donne che hanno seguito il percorso siano uscite fuori e abbiano ripreso la loro vita.

Perché è così difficile uscire da una dinamica di violenza?

Silvana: Perché una donna vittima di violenza continua a stare col proprio carnefice? Ci sono tanti motivi, non ultima la mancanza di strumenti. La vittima di violenza, per uscirne davvero, non deve solo fare un percorso personale, spesso durissimo, deve anche avere le risorse per riprendere in mano la sua vita. Il Centro non basta. Noi cerchiamo di affrontare il fenomeno a 360 gradi, ma il lavoro resta un tassello fondamentale.

Si dice che la violenza contro le donne non abbia connotazioni classiste...

Silvana: È così. Dirò di più: paradossalmente più la donna è indipendente, più il tipo di violenza diventa grave. Spesso la casalinga subisce una violenza prevalentemente psicologica: viene denigrata finché si convince di essere un’incapace e quando arriva da noi si tratta di fare un lavoro di recupero proprio della dignità.

Queste donne, tra l’altro, non si sentono vittime di violenza, perché non vengono picchiate, e però quel che subiscono è altrettanto terribile perché sentirsi ripetere per anni e anni: “Sei una cretina, non sei una buona moglie, non sei una buona madre...”. Tante volte arrivano da noi dicendo: “Non sono una buona madre...”, solo parlando con una specialista si capisce qual è il problema. Ecco, la casalinga subisce soprattutto questa violenza. Se la donna invece è indipendente, lì scatta un passaggio ulteriore da parte dell’uomo, che vuole dimostrare che comunque l’indipendenza economica della compagna non vale nulla, perché comunque lei è un suo possesso. Ciò porta l’uomo a voler convincere la propria donna, la compagna, la moglie, la fidanzata, che lei comunque appartiene a lui. E se non lo capisce con le parole, lo capirà con le botte!

Se si guarda la statistica dei femminicidi, il maggior numero di donne uccise non è nel sud, dove la donna di solito non lavora, ma al nord, dove è più indipendente e quindi, potrebbe decidere: “Basta, con te ho chiuso!” perché ha l’indipendenza economica.

Spesso la violenza arriva dopo che la donna è rimasta sola. Come mai?

Silvana: Tante volte si scopre che la vittima di violenza non aveva una forte rete familiare, amicale, pronta a sostenerla. L’uomo esercita la violenza solo dopo che ti ha precluso questi rapporti. Il compagno, il marito non ti dice: “Sei una scema, non sai fare niente…”. Al contrario, ti ripete che sei una donna in gamba e che la tua famiglia non ti merita, ti fa notare i difetti dell’amica, della collega; così, poco a poco, smetti di vedere altra gente e alla fine c’è solo lui.

Il vostro Centro non ha una casa protetta…

Silvana: La casa non è nelle nostre corde: in qualche modo la vedo come un’esperienza monca, senza un dopo... In Spagna la donna vittima di violenza grave sta un anno e mezzo, poi viene trasferita in un appartamento e alla fine c’è una forma di inserimento. È un percorso costoso che richiede anche una capacità organizzativa notevole. Ecco, io ho paura di fare qualcosa che resti campato in aria, senza continuità. Ci sarebbero anche i fondi europei, ma quei soldi vengono dati a fronte di un progetto che poi deve camminare da solo. Non si può pensare di aprire e chiudere un servizio di questo tipo perché finiscono i soldi. Bisognerebbe allora pensare di creare un B&B o un centro servizi nella zona dove si trova la casa.

La Sardegna è un paradiso: si potrebbero offrire tanti servizi, dalla baby-sitter alla badante. In quest’ottica le donne vittime di violenza creerebbero lavoro e lavorerebbero loro stesse.

Avete anche uno sportello contro lo stalking...

Antonella: Nel 2006 abbiamo aperto il primo sportello nazionale contro lo stalking, dove accogliamo uomini e donne (a differenza del centro antiviolenza dove sono accolte esclusivamente donne). Gli uomini sono comunque una quota esigua, anche perché pochi trovano il coraggio di venire a raccontarti il malessere che vivono. Il primo arresto per stalking a opera della questura di Cagliari è stato ai danni di una donna tedesca che rendeva la vita impossibile al suo ex compagno. Le donne e gli uomini si rivolgono a noi telefonicamente; lanciano un messaggio di aiuto che viene recepito dalla nostra coordinatrice, la quale fa anzitutto un controllo.

Purtroppo non mancano le false vittime, persone magari affette da mania di persecuzione. Il caso più tipico è quello della donna che subisce molestie assillanti da parte dell’ex partner che non accetta la fine di una relazione e che, di conseguenza, pone in atto una serie di comportamenti che provocano nella vittima una situazione di disagio, stress, angoscia. Nello stalking non sono coinvolte solo le cosiddette vittime “primarie”, ma anche le vittime “secondarie”. Lo stalker infatti molesta anche la rete amicale, parentale, perfino i colleghi di lavoro, con situazioni pesanti per tutti. Una volta che arriva la richiesta allo sportello, si fa un primo colloquio in sede dove si esamina insieme la situazione e si decide sulla procedura da mettere in atto. Lavoriamo in rete con le forze dell’ordine e quindi abbiamo un canale privilegiato: facciamo in modo che venga messo in atto anzitutto l’art. 1 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, che prevede un accordo bonario tra le parti. Quindi la vittima denuncia verbalmente il suo stalker che viene richiamato in questura: a un richiamo formale, cui dovrebbe seguire la cessazione della molestia. Ma non sempre va così. Se lo stalking persiste, consigliamo di rivolgersi nuovamente alla questura con la richiesta di un ammonimento.

Per far questo devi redigere una sorta di diario in cui descrivi la tua quotidianità, i tuoi stati d’animo, gli episodi che causano il tuo malessere. Il primo consiglio che diamo è proprio quello di conservare i messaggi, le e-mail, il tabulato delle chiamate: sono tutte fonti documentali che servono, insieme alle testimonianze, quando si procede all’ammonimento. A volte nemmeno questo funziona: abbiamo avuto dei casi in cui lo stalker ha persistito con questi comportamenti sino a portare la vittima a un cambio di residenza, alla vendita della casa. Purtroppo molte donne vittime di stalking sono anche vittime di femminicidio.

Non si parla mai dei figli delle vittime.

Antonella: Il 35% delle vittime di femminicidio aveva figli. Fra il 2000 e il 2013 sono 1.500 gli orfani di femminicidio. Stiamo lavorando a un progetto di sostegno a questi ragazzi: assieme alle forze dell’ordine, alla magistratura, ai servizi socio-assistenziali si sta elaborando una linea guida per assistere queste vittime, che spesso sono orfani due volte perché, in un caso su tre, oltre alla madre, muore anche il padre suicida; altrimenti questi viene incarcerato. Col risultato che questi bambini vengono spesso affidati ai nonni, che a loro volta devono elaborare un lutto, perché hanno perso una figlia. Altri bambini sono affidati al ramo paterno, cioè ai parenti di colui che ha ucciso la mamma. Se non ben seguiti, questi bambini rischiano di essere soggetti ad attacchi di panico, turbe del sonno, ansia, depressione.

Silvana: Li abbiamo definiti “figli invisibili”, perché per anni nessuno se n’è occupato. Al momento del delitto, nella cronaca, si ricorda che la donna uccisa era “mamma di...”, ma poi questi bambini spariscono, nessuno ne parla più. C’è un altro aspetto poco considerato e che riguarda i più piccoli. Parlo della “violenza assistita”, cioè dei bambini che assistono alla violenza. In un prossimo futuro vorremmo volgere uno sguardo più attento anche a questo tema.