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QT n. 1, gennaio 2019 Servizi

Lo specchio del ’68: idealisti ma non troppo n°2

Lotte operaie, ugualitarismo, libertà sessuale, assemblee, violenza: esperienze e miti di 50 anni fa rivisti con tremore e partecipazione.

Gaspare Nevola

Nei mesi scorsi abbiamo presentato i risultati di una nostra ricerca su cosa gli studenti del 2018 conoscono e come valutano miti, valori e ideali del movimento del ‘68. Era una ricerca condotta - assieme al prof. Gaspare Nevola, ordinario di Scienza Politica, e all’Università di Trento – in 15 scuole della provincia, attraverso questionari compilati da 500 studenti. Dopo una serie di analisi e commenti (nel numero di giugno e in quello di dicembre 2018) di seguito il prof. Nevola prosegue e conclude la sua interpretazione dei risultati.

Studenti e operai uniti nella lotta

La nascita dei “collettivi” operai-studenti, l’apertura del mondo dello studio a quello del lavoro e viceversa, la frequentazione “comunitaria” e “alla pari” tra ragazzi e ragazze che frequentano le aule scolastiche/universitarie e ragazze e ragazzi che passano le giornate in fabbrica, l’esperienza di studenti che vanno a lavorare alla catena di montaggio e di operai che sottolineano i testi di Marx o di Marcuse, rappresentano pratiche di vita che la cultura politica del ‘68 associa ai valori della giustizia sociale e agli ideali di eguaglianza: anzitutto sul terreno economico. Ma in fondo anche su quello culturale e degli stili di vita quotidiana: sono anche le pratiche di vita, infatti, che offrono la base materiale alla socializzazione reciproca e associativa tra studenti e operai che in quella congiuntura storica vogliono incontrarsi e marciare uniti nella lotta contro le diseguaglianze e per la giustizia sociale.

La domanda 9 chiede agli studenti trentini di prendere posizione sull’idea di “una società più giusta”, sulle rivendicazioni di fabbrica della fine degli anni ‘60 a favore di un egualitarismo nei salari e nei contratti di lavoro collettivi che prevedevano aumenti “uguali per tutti” se non “inversamente proporzionali” tra la busta paga di un manager e quella di un pulitore di gabinetti; la domanda 9 chiede pure di prendere posizione sulla convinzione dell’epoca secondo cui una società egualitaria fosse anche efficiente (perché premiava le mansioni più umili e meno qualificanti in busta paga mentre quelle più qualificate offrivano una soddisfazione già per il tipo di attività svolta).

Le risposte sono contraddittorie: oltre il 60% considera questi aspetti dell’uguaglianza economica e di una società più giusta come delle “belle idee”, lontane da quelle prevalenti oggi, quando le diseguaglianze sono cresciute a dismisura; ma, d’altra parte, ben il 65% condivide che tali idee erano “un’utopia che non poteva stare in piedi”, che “la professionalità deve essere remunerata”, mentre più della metà dei ragazzi riconosce nell’egualitarismo socioeconomico dell’epoca “idee pazzesche e controproducenti, logicamente travolte dalla storia”.

Forse perché ancora troppo lontani dal mondo del lavoro, forse perché figli di un mondo che non ha saputo fare, con serietà e saggezza, i conti con i problemi delle diseguaglianze socioeconomiche, con l’imperativo morale di una società più giusta o almeno decente per tutti, alla fine i nostri studenti appaiono disorientati e ambivalenti, persino incapaci di concepire il significato di un’utopia o di un ideale. Nel loro piccolo, sembrano costituire l’emblema vivente del tramonto di un’idea centrale della modernità politica e della Rivoluzione Francese, del “sol dell’avvenire” e della “falce e martello”. E forse sono anche una spia del perché la sinistra è rimasta senza popolo e si sposta al centro, a destra.

O forse abbiamo soltanto a che fare con i figli del ricco o mediamente benestante Trentino, di una terra senza grilli per la testa e con la Controriforma e il pragmatismo etico radicati nel petto della sua cultura e del suo vivere quotidiano?

Quando il tema dell’uguaglianza viene ricondotto all’ambito degli stili di vita, delle frequentazioni interclassiste, a una sorta di spirito comunitario tra studenti e operai, e l’eguaglianza diventa una questione di scelte personali sugli stili di vita, i nostri studenti recuperano, invece, risposte coerenti. È il caso della domanda 8, che chiede di posizionarsi sui “collettivi operai-studenti” (base del movimento del ‘68) e, soprattutto, sull’”incontro tra studenti ed operai” nella vita privata (amore, sesso, vacanze, scelte personali).

Qui i due terzi circa delle risposte approvano i giudizi positivi su questa faccia dell’eguaglianza, sulle esperienze di vita a essa ispirate: solo un terzo considera questi comportamenti utopistici e fuori dal mondo, eccentrici e generati da irrazionalità, da esaltazioni collettive. Ma l’ideale dell’eguaglianza spinge i giovani del ‘68 a portare in piazza, nelle proteste e nelle lotte sindacali “studenti e operai uniti nella lotta”: lo slogan diventa realtà e arriva fino alla bomba e alla strage di piazza Fontana. In questo caso (domanda 19), i nostri studenti faticano a posizionarsi: non sanno come giudicare il clima incandescente e di violenza associato all’unità di lotta tra studenti e operai.

Sollecitati a prendere posizione rispetto a due stimoli-giudizi tra loro in contraddizione, nel loro insieme non riescono a far emergere un orientamento coerente: due terzi condividono il giudizio positivo secondo cui il movimento “studenti e operai uniti nella lotta” ottenne l’importante risultato di ridurre l’ineguaglianza dei redditi; ma sono due terzi anche quelli che condividono il giudizio negativo su quell’esperienza di lotta (“c’era un clima di caos e confusione, da cui non poteva nascere nulla di buono”).

Il carattere contraddittorio e irrisolto di queste risposte può (anche se solo in parte) essere sanato dall’ipotesi che nella cultura politica degli intervistati “la violenza fa differenza” e “il fine non giustifica i mezzi”: un tratto topico della cultura politica dei nostri tempi, non solo in Trentino ma in tutta Italia e in Europa.

Ma un’ipotesi del genere spiega anche fattori alla base del predominio dell’ordine neoliberale, dell’accettazione delle diseguaglianze cresciute negli ultimi decenni e di quello che chiamerei l’enigma dell’acquiescenza: perché tante persone accettano politiche e distribuzione delle risorse che le immiseriscono senza ribellarsi.

“La zanzara” la donna, il sesso

Con le domande 4 e 10 i valori libertari e la critica di quelli tradizionali incrociano l’ideale dell’eguaglianza nel campo dei costumi sociali e della mentalità. Qui il riferimento è all’eguaglianza di genere, alla morale sessuale, all’identità e all’emancipazione femminile.

La contro-cultura del ‘68 ha dato un’espressione ideale agli orientamenti libertari e di egualitarismo di genere, rompendo anche tabù ed ipocrisie consolidati nel discorso pubblico ufficiale. Il ‘68 diventa anche “il ‘68 del femminismo”, non senza innescare all’interno dei movimenti tensioni, contraddizioni e altre ipocrisie nei comportamenti e nella vita quotidiana: specialmente nell’universo maschile, dove la cultura maschilista è tutt’altro che assente.

Cinquant’anni dopo, il giudizio generale degli studenti trentini sul “femminismo del ‘68” e sul suo valore positivo per l’emancipazione della condizione femminile nei rapporti uomo/donna è univoco (domanda 10): è fatto proprio quasi dal 90% dei rispondenti; per contro, il giudizio che tende a svalutare la portata emancipativa di questo femminismo è approvato da un modesto (anche se significativo) 23%.

Sul terreno della morale e della liberazione sessuale, specie delle donne, la convergenza dei giovani trentini con la cultura sessantottina appare, singolarmente, più precaria. Le reazioni nei confronti delle diverse implicazioni legate alla vicenda del giornale studentesco “La Zanzara” presentano ambivalenze (domanda 4). Se la liberazione sessuale delle donne e la rottura del tabù della verginità è giudicata positiva dal 70%, allo stesso tempo le ragazze e i ragazzi di oggi nel 70% dei casi si schierano con “si è passati da un estremo all’altro”.

Molte sono le ipotesi che si possono fare per spiegare questo risultato inatteso almeno in una percentuale tanto alta. Vero è che da anni circolano inchieste che ci dicono come nella cultura, nella mentalità e nei costumi giovanili di oggi vada crescendo una sorta di neo-puritanesimo nella morale sessuale delle ragazze o una revisione in positivo del significato della verginità, anche se non è facile stabilire quanto tutto ciò incida sulle loro scelte comportamentali e quanto invece resti circoscritto in un “perbenismo” ufficiale e delle intenzioni, quanto sia frutto di ri-orientamenti autonomi nella coscienza delle donne o quanto eterodiretto.

Quale che sia il caso, certo è che i 15-20enni di oggi non sono così decifrabili come sembrerebbe e, quando sono indotti a guardarsi allo specchio della “generazione del ‘68”, talora si trovano a gestire non poco imbarazzo e non poca confusione in testa. Il 73% di condivisione dell’affermazione sul persistere di una “doppia morale” nei confronti dei comportamenti dei maschi e delle femmine suona come un’amara denuncia dell’inefficacia storica della contro-cultura (femminista) del ‘68? Oppure, anche in questo caso, nasconde un sospiro di sollievo per il fallimento del ‘68 – come molti sessantottini (Rostagno compreso) hanno affermato nel post-’68?

Assemblee, occupazioni e violenza

Con le domande 1, 18 e 21 ci spostiamo su temi che riguardano più direttamente la politica: le sue forme organizzative e le sue pratiche, il modo di intendere la democrazia e il rapporto tra i mezzi e i fini di una politica, quella della contro-cultura del ‘68, orientata a rivoluzionare dalle fondamenta il “sistema” vigente, il suo funzionamento, le sue storture e i suoi ideali ipocriti.

L’ideale centrale qui esaminato è quello della “partecipazione politica”, ossia lo snodo cruciale attraverso cui i giovani del ‘68 volevano riacciuffare le promesse (non mantenute) associate ai valori democratici e restituire lo scettro al principe-popolo, ai cittadini. Questi elementi della cultura politica del ‘68 si condensano intorno a tre principali questioni:

1) le assemblee studentesche, intese come nuove forme della partecipazione politica ripensate nell’ottica di una democrazia diretta contrapposta a quella rappresentativa e alle sue istituzioni (Parlamento, amministrazioni locali, ecc.) e i suoi strumenti (partiti, elezioni per la rappresentanza, ecc.);

2) le occupazioni, specialmente delle scuole e dell’università, intese come occasioni e strumenti per ridefinire gli spazi pubblici istituzionali (aprendoli anche a pratiche di socialità), i ruoli dei soggetti al suo interno (professori e studenti), i contenuti delle loro agende (programmi e curricula di studio, modalità di studio e di esame), tutto ciò al fine di contestare l’autorità e l’autoritarismo delle istituzioni ufficiali, dei loro contenuti e dei soggetti chiamati a definirli e ad interpretarli;

3) la violenza, l’illegalità o extra-legalità, intesi come “mezzi” politici e forme di partecipazione necessari rispetto al “fine” (“giusto”) della rivoluzione: cambiare la società.

Nell’insieme ragazzi e ragazze trentini per lo più condividono i giudizi positivi su questi orientamenti e pratiche valoriali, anche più di quanto ci saremmo aspettati.

Ma non mancano incongruenze, incertezze e distinguo nel modo in cui le loro risposte si distribuiscono sui diversi aspetti relativi alla partecipazione nell’universo del ‘68. Sulle assemblee studentesche (domanda 18) come modalità di democrazia diretta e sui loro limiti intrinseci o dovuti alla specifica messa in pratica dell’epoca, gli intervistati approvano prevalentemente un giudizio positivo: i due terzi sottoscrivono l’affermazione “l’umanità e la storia vanno avanti per tentativi: quando sono generosi e disinteressati, come in questo caso, sono positivi anche se non danno frutti nell’immediato”; ma ben il 46% è dell’idea che “la confusione istituzionale ben rappresenta la mancanza di realismo del movimento”.

Più forte ancora è la condivisione delle occupazioni e dello spirito che le ha ispirate (domanda 1): i due terzi ci vedono “la maniera di affermare l’autonomia degli studenti rispetto ai professori”, “la maniera per elaborare autonomamente un sapere che non fosse meccanica ripetizione di quanto imposto dai docenti”; c’è però quasi un terzo che le considera “atti di goliardia che facevano perdere tempo a chi voleva studiare” e, soprattutto, oltre un 40% che le condanna come “atti radicalmente illegali, quindi da condannare senza riserve”. Infine, la partecipazione politica attraverso forme di illegalità, extra-legalità e, soprattutto, violenza (domanda 21).

Agli intervistati, sul tema si è offerto il punto di vista dei giovani “rivoluzionari” del ‘68, la loro giustificazione dei mezzi in vista dello scopo: “se vuoi cambiare il mondo, devi aspettarti reazioni, violenze, da parte del potere, cui devi essere pronto a rispondere, qui sta la vera differenza tra il militante autentico e il ‘rivoluzionario da salotto’”.

Di fronte alla violenza e all’illegalità, i nostri studenti mostrano orientamenti, ancora una volta, contraddittori, le loro risposte denotano confusione culturale e incertezza valoriale: tre quarti respingono l’idea che la partecipazione politica possa esprimersi in forme illegali e tramite violenza, ma tre quarti, allo stesso tempo, giustificano persino il ricorso alla violenza, condividendo l’affermazione che “non si può essere per un cambiamento radicale e poi tirarsi indietro di fronte ad inevitabili conseguenze”, riconoscendo al “‘68 violento” onestà intellettuale nell’accordare la radicalità dei mezzi da usare alla radicalità dei fini perseguiti.

Il nostro è un mondo in cui la cultura politica diffusa rifiuta e condanna senza mezzi termini il ricorso alla violenza (anche quella solo verbale). La nostra mentalità e cultura politica, specie in Europa, hanno sostanzialmente rimosso dalla riflessione critica e dalla discussione pubblica la complessità e l’ambivalenza del tema della violenza. Ma la violenza resta un problema aperto quando guardiamo al rapporto tra aspirazione all’ordine e aspirazione alla giustizia.

Abbiamo perso di vista il profondo dilemma etico-politico che si nasconde dietro al tema della violenza. Ma la tensione che accompagna ogni pensiero che si interroga sull’”ordine giusto”, come pure la vita quotidiana e la cronaca internazionale, avvertono che con la violenza gli uomini e le donne non hanno ancora finito di fare i conti. Nelle irrisolutezze e nelle aporie manifestate dalle risposte delle ragazze e dei ragazzi del Trentino sulla politica e la violenza pare racchiuso, in fondo, un promemoria culturale, etico e politico che non dovremmo trascurare.

Conclusione

Florida, inizio 2018. Gli studenti delle scuole medie superiori scendono in protesta. La loro protesta potrà avere lo stesso impatto di quella degli anni ‘60? Potrà cambiare il mondo? - si è chiesto il filosofo Michael Walzer.

La protesta degli studenti della Florida non ha alle spalle una causa ideale come, ad esempio, l’oppressione dei neri d’America di un tempo. Non ha neppure un’agenda politico-ideale di ampio respiro. La loro è una protesta monotematica: protestano contro la libera circolazione delle pistole e dei fucili. Ma, in America, anche questa è una questione importante, per quanto limitata. Anche il successo di questa apparentemente piccola protesta potrebbe “cambiare il mondo”: potrebbe togliere forza alla lobby delle armi.

Un ragionamento simile si potrebbe fare anche a proposito di altre proteste: lascio al lettore scegliere quali. La protesta in Florida o altre che potremmo immaginare possono avere successo? Dipende. Se gli studenti non cessano di protestare, se non accettano le riforme palliative che vengono proposte, se agli studenti della Florida o, che so io, di Catania, si uniscono studenti provenienti da altre parti, se in migliaia e centinaia di migliaia si recano a Washington o a Roma, a seconda dei casi… Allora sì, la protesta può avere successo e il mondo è ancora possibile cambiarlo.

E gli adulti? Che cosa possono fare? Gli adulti, insegnanti o genitori, possono anche aiutare gli studenti, se ne sono convinti. Però… non sostituendosi a loro, non guidando la loro protesta, ma dando loro un sostegno pubblico e culturale. Come fecero i predicatori neri negli anni ‘60 in America. Per il resto, gli studenti e i giovani, oggi come allora, devono agire per conto loro. Sempre che vogliano cercare di cambiare il mondo. Sempre che ne abbiano le capacità. Sempre che siano convinti che nel mondo ci siano cose brutte e ingiuste, che non si possono accettare.

Ma questa è un’altra storia. Un film fiabesco o dell’orrore.

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Gaspare Nevola è docente di Scienza politica all’Università di Trento