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“The Serpent”

Un serial killer speciale di Tom Shankland e Hans Herbots (Miniserie Netflix)

Devo dire la verità: se nei primi dieci minuti di un film sono presenti brani sonori evocativi di luoghi ed epoche, con sequenze capaci di valorizzare la musica oltre i suoi meriti, sono già catturato e il mio giudizio non è più obiettivo.

È proprio quello che succede con “The Serpent”, miniserie televisiva per la regia di Tom Shankland e Hans Herbots, ambientata tra Thailandia e altri stati asiatici alla metà degli anni Settanta. Già nella seconda sequenza il poco noto “Funk #49” di James Gang e successivamente il dimenticato “Fingerprint File” dei Rolling Stones, utilizzato come Scorsese sa fare, producono un aggancio di sound & vision irreversibile. Una partenza studiata alla perfezione, che cattura e proietta indietro di quarantacinque anni, tra i risvolti più seducenti e oscuri di un’epoca piuttosto frequentata dal cinema negli ultimi tempi.

Una volta accomodati in poltrona, e in quel decennio, è difficile mollare le otto puntate di circa un’ora, che raccontano la vita e i crimini di Charles Sobhraj, assassino seriale di giovani occidentali che capitavano tra le sue grinfie nei loro viaggi lungo l’hippie trail (tra Europa e Asia meridionale).

Ma non si tratta del solito serial killer sociopatico di cui è pieno il cinema, piuttosto un ladro, truffatore, grande manipolatore, narcisista e spietato omicida per denaro e calcolo piuttosto che per cieca follia. Un criminale motivato dal bisogno, dal desiderio della bella vita e da un senso di rivalsa verso il mondo occidentale che l’ha discriminato in quanto figlio francese di madre asiatica. Così giustifica la sua violenza verso i figli della borghesia agiata europea in cerca di fughe ed esperienze esotiche questo cattivo d’altri tempi, dall’ego smisurato, molto inquietante e credibile. E in questa contraddittoria complessità sta il suo fascino e quello della sua ambigua compagna Monique, con la quale instaura un rapporto/dominio dai dubbi tratti. Tutto poi si muove su tracce di ossessione che coinvolgono anche Herman Knippenberg, il diplomatico olandese che per primo ha indagato sulla scomparsa di una giovane coppia, rimanendo coinvolto per anni nella fissazione di incastrare i colpevoli.

Oltre al repulsivo magnetismo del protagonista, a rendere originale la miniserie sono poi l’insieme delle atmosfere soft horror, ambientate in luoghi e tempi così apparentemente solari.

Come è successo in altre serie tv, la sceneggiatura si ispira ad una storia vera, limitando la libertà di manipolare a piacimento i caratteri dei personaggi e lo sviluppo delle vicende. Evitata questa trappola, gli autori si sono sbizzarriti nella creazione dei dialoghi e nella compilazione di una sceneggiatura con – purtroppo - un immotivato eccesso di flashback.

A parte questo unico punto debole, il racconto risulta concluso, senza inutili invenzioni e divagazioni, restando verosimile nella smitizzazione, ad opera di malvagità e conseguenti risvolti angoscianti, di quel paradiso hippie tanto vagheggiato all’epoca.

Oltre all’accattivante e puntuale colonna sonora, va poi sottolineata la cura della ricostruzione d’epoca nelle scenografie, nei costumi e anche nei dettagli, come ed esempio la caratterizzante collezione di occhiali di Sobhraj.

Bravi gli attori, con il ruolo principale interpretato da Tahar Rahim, già straordinario protagonista de “Il profeta” di Jacques Audiard.

Occhio quindi alle coproduzioni inglesi della BBC One, che da anni ci hanno abituato a prodotti di qualità.

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