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Bolzano Città della Memoria 2022

Mostre, monumenti, libri e altre iniziative riscattano il silenzio che per decenni ha coperto un periodo oscuro della storia sudtirolese.

È venuto dalla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, l’invito a scegliere Bolzano quale sede dell’evento annuale che viene organizzato dal CDEC (Centro di Educazione Ebraica Contemporanea) insieme al Ministero dell’Interno, in occasione della Giornata della memoria, 27 gennaio, istituita in Italia con la legge 211 del 2000. Nel foyer del Teatro comunale di Bolzano fino alla fine di febbraio si può vedere la mostra “La persecuzione degli ebrei in Italia 1938-1945”, che documenta la storia dell’antisemitismo, dalle leggi razziali alla campagna di stampa, alla deportazione nei campi di sterminio. Un riconoscimento importante alla città e al suo archivio e in particolare alla sua direttrice, Carla Giacomozzi, per il lavoro di documentazione e per l’elaborazione della storia del fascismo e del nazismo in Sudtirolo.

La monumentalizzazione del muro (unica parte rimasta) del campo di concentrazione e di transito (verso i lager di sterminio tedeschi) ha visto nel 2019 la visita congiunta dei due presidenti, Sergio Mattarella e l'austriaco Alexander van der Bellen, a conferma che la verità storica su un periodo ricostruito finora in modo contrastante, può far superare “l’inimicizia ereditaria” fra i due Paesi e avvicinare sudtirolesi italiani e tedeschi, aiutandoli a lasciar cadere i pregiudizi e ad aprirsi alla collaborazione per una realtà più democratica, etnicamente disarmata.

All’inaugurazione della mostra, il 24 gennaio, sono intervenuti il presidente della Fondazione CDEC, Gadi Luzzatto Voghera; Federico Steinhaus, esponente storico della Comunità ebraica di Merano e testimone del tempo; Dario Venegoni presidente dell’ANED (Associazione Nazionale ex deportati nei campi nazisti); lo storico Hannes Obermair, vicepresidente dell’ANPI Alto Adige, che ha ricordato “le pietre d’inciampo, una memoria disseminata dell’orrore”; e il presidente della Provincia, Arno Kompatscher.

Non è stata una cerimonia retorica – come spesso accade - ma al contrario un avvenimento che segna una profonda cesura nel modo di ricordare gli avvenimenti di quel tempo e che ha un profondo effetto anche sul presente.

Il prof. Luzzatto Voghera si rivolge con il suo lavoro educativo alle nuove generazioni, perché diano valore alla disobbedienza quando l’ordine contrasti con la coscienza morale. Uno stimolo a non essere indifferenti, se non si vuole essere complici.

Steinhaus, sfuggito da bambino alla deportazione (vedi lo straordinario piccolo libro di sua madre, dal titolo “Mio caro Federico”, che racconta la storia della loro fuga da Merano), ha rivendicato il ruolo di Israele come patria-rifugio per gli ebrei ancora oggi di fronte all’antisemitismo che rinasce in Europa. Entrambi hanno condannato la banalizzazione della Shoah fatta da movimenti come i no vax.

Ciò che ha detto il presidente Kompatscher mi ha fatto pensare che trent’anni fa tutto questo non sarebbe stato possibile. Sarebbe stato impossibile sentire da un esponente di primo piano della Svp che “i sudtirolesi sono stati insieme vittime e carnefici”. Il presidente ha rotto coraggiosamente la triste tradizione dei suoi predecessori, a partire da Magnago, che non hanno mai voluto assumere la responsabilità per la deportazione degli ebrei, denunciati alle SS nel settembre del 1943 dai loro vicini di casa. La motivazione di Magnago e Durnwalder (quest’ultimo rispondendo a una precisa richiesta di Matteo Taibon dell’Associazione Popoli Minacciati di andare una volta in sinagoga) fu che “anche i sudtirolesi hanno sofferto”. In realtà la Svp non ha mai voluto fare differenze fra i concittadini di lingua tedesca che finirono nei lager come prigionieri e coloro che nei lager furono gli aguzzini. Nel dopoguerra le differenze fra optanti e Dableiber, fra filonazisti e resistenti attivi o passivi, vennero messe a tacere: si doveva stare uniti, sottovalutando le conseguenze di un simile comportamento.

Come è ben spiegato nel museo “Haus der Geschichte Österreich” di Vienna, per un popolo atteggiarsi a vittime, come fecero gli austriaci dopo la guerra, può dare un vantaggio immediato, ma ha come conseguenza generazioni che non capiscono e non sono attrezzate alla democrazia.

In Austria si sta riparando, con la piattaforma erinnern.at e con quel museo. E in Sudtirolo? Come ha raccontato Franz Thaler nel suo bellissimo libro “Dimenticare mai”, proprio chi si era rifiutato di giurare per il Führer o era stato renitente alla leva (illegale) dei tedeschi occupanti dopo il 1943, coloro dunque che erano stati i veri patrioti difendendo l’onore della patria, furono messi in minoranza e disprezzati dagli “eroi” reduci dalla guerra combattuta dalla parte della Germania nazista. Ancora nel 2009, l’allora vicesindaco Svp di Bolzano rifiutò di partecipare alle cerimonie del 25 aprile, dichiarando che “la vera liberazione per i sudtirolesi era stata l’8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca accolta con i fiori”.

Le parole di Kompatscher aprono dunque una nuova fase della storia del Sudtirolo. Infatti, se da un lato i sudtirolesi di lingua tedesca non sono solo vittime di quella storia, dall’altra cade anche il pregiudizio degli “italiani brava gente” nelle colonie e nel tempo della Repubblica sociale.

Dagli studi emergono le responsabilità degli italiani nella persecuzione degli ebrei e nella cattura di dissidenti e resistenti, mettendo in luce una visione dell’antisemitismo e della Shoah molto più aderente alla realtà e l’adesione del fascismo e dei fascisti agli obiettivi genocidi del nazismo. La cesura etnica basata sui pregiudizi si riduce, e si apre uno spazio di incontro basato sulla verità storica.

Le testimonianze

Bolzano merita di essere Città della memoria grazie al lavoro non sempre riconosciuto di tanti storici, non sempre sufficientemente riconosciuti, come Leopold Steurer, Martha Verdorfer e Walter Pichler, Cinzia Villani, e dei Quaderni della Memoria dell’ANPI di Bolzano (vedi i numeri 1/1999 e 2/2002) e ai memoriali di testimoni come Aldo Pantozzi, che nel 1946 raccontò della sua detenzione nel lager di via Resia, e ancora altri che prima che ci fossero le prove, scrissero sul lager e sulle deportazioni, riferendo le voci di coloro che c’erano stati. A costo di non essere creduti.

Molte denunce verso gli aguzzini del Campo, da parte di vittime e anche delle commissioni alleate, su quanto avvenne in quel tempo nel campo di Bolzano, finirono nascoste nel cosiddetto “armadio della vergogna“. Nell’armadio, ritrovato per caso a Roma nello scantinato di palazzo Cesi-Gaddi nel 1995, si trovarono 629 dossier raccolti dalla Procura generale del Tribunale supremo militare relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante la campagna d’Italia (1943-1945) dalle truppe nazifasciste, fascicoli che furono occultati nel 1960 per ragioni politiche. Vedi: https://it.wikipedia.org/wiki/Armadio_della_vergogna#I_contenuti_rinvenuti).

Dai documenti e dalle numerose testimonianze raccolte a partire dalla metà degli anni '90 nacque il processo a Michael Seifert, il sadico assassino capo del campo, che torturò centinaia di prigionieri e ne uccise almeno 18. Nel processo davanti al Tribunale militare di Verona, il Comune di Bolzano si costituì allora parte civile con l’avvocato Arnaldo Loner, che ancora oggi visita le scuole per raccontare quella storia che “anche a volerla raccontare è impossibile”. Seifert, ucraino di lingua tedesca, fu riportato in Italia dal Canada, dove si era rifatto una vita e condannato. Soprattutto emerse la verità: il dolore delle vittime e dei loro parenti fu riconosciuto e vinse il principio che non esiste scadenza per delitti così efferati.

Il Passaggio della Memoria oggi illustra sul muro del lager la storia del campo e finisce con un’installazione su cui si leggono tutti i nomi di coloro, almeno 9.500, che in quel campo passarono o vennero assassinati: esponenti della resistenza italiana, ebrei, Rom, testimoni di Geova, omosessuali, renitenti alla leva nazista, parenti di persone ricercate. Ma altri luoghi sono ricordati o monumentalizzati: il binario da cui partirono i vagoni con i prigionieri e le prigioniere, diretti ai campi di sterminio; il museo nella cripta del monumento della vittoria, BZ 18-45. Un monumento, una città due dittature, che storicizza il monumento, togliendogli il significato voluto da Mussolini; il fregio fascista di piazza del tribunale, dove la frase di Hannah Arendt “Nessuno ha diritto di obbedire”, si oppone alla grande scritta del Duce “Credere, Obbedire, Combattere”. Le pietre d’inciampo a Merano, Bolzano e a Ora, poste davanti alle ultime dimore libere di ebrei assassinati. Il parco Olimpia Carpi, a Bolzano, dove si trova la targa dedicata alla bambina di 3 anni deportata e uccisa, per cui i due giornali Alto Adige e Dolomiten raccolsero a suo tempo – insieme, quando ancora non avevano lo stesso padrone - donazioni, suscitando nel 2002 reazioni scomposte e non solo dell’estrema destra tedesca. Recente e fondamentale in questa composizione, è il libro di Sabine Mayr e Joachim Innerhofer, “Là dove la patria uccide”, (Ed. Raetia, sia in tedesco che in italiano), che racconta la storia ritrovata di famiglie ebraiche in Sudtirolo, un lavoro di ricerca molto accurato e profondo, che racconta persone che qui ebbero una vita insieme agli altri abitanti, prima di dover fuggire o di subire discriminazione, deportazione e morte.

La comunità di Merano, cancellata, oggi è ricomposta in un piccolo numero. Federico Steinhaus lo ha amaramente ricordato il 24 gennaio 2022 nel teatro di Bolzano.

Evitare che la storia si ripeta sarà possibile solo facendo crescere nuove generazioni educate ad esprimere dissenso e resistenza. Rivolto ai giovani, Luzzatto Voghera ha detto: “Senza la nostra collaborazione nessuna macchina dello sterminio è possibile. Non possiamo comportarci da pecore, ma dobbiamo seguire la nostra regola etica, perché le nostre azioni hanno delle conseguenze. Se siamo consapevoli di questo il nostro lavoro sulla memoria avrà successo”.