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Lula è presidente, Bolsonaro è in fuga

In Brasile la destra trama, il parlamento è diviso ma il P.T. non molla e tenta ancora di cambiare il paese

Lunedì scorso, con un colpo di scena degno del miglior regista dadaista, Inácio Lula da Silva del Partito dei lavoratori è stato insignito della fascia della presidenza della repubblica brasiliana da un ragazzino, una catadora de lixo (raccoglitrice di rifiuti), un capo indio, un nero, un disabile e un operaio. Una rappresentazione avvenuta sulla Spianata dei ministeri di Brasilia per rispondere all’ex presidente Bolsonaro che, rifiutandosi di consegnare all’avversario che lo aveva sconfitto la fascia del potere, se ne era scappato dal paese qualche giorno prima.

Non è ancora il tempo della democrazia compiuta per il Brasile, dove la destra egemonizza metà del paese cavalcando miti di liberismo assoluto, blandendo l’esercito contro la supposta onda comunista rappresentata dal Partido dos trabalhadores. Eppure in un’epoca in cui nel mondo occidentale la sinistra mostra il suo declino ideologico ed elettorale a favore di una destra muscolare, il Brasile continua nel suo percorso democratico.

Un Brasile piagato dalle stigmate di un colonialismo retrivo e violento. E dalle sue scelte, come quella di uno schiavismo ultimo a morire in Occidente. Un Brasile che però è andato avanti sulla strada della democrazia negli ultimi 40 anni. Un paese-continente che presenta un sud europeo e sviluppato, un nord e nordest quasi africano. E un motore economico-sociale, da Belo Horizonte a S. Paolo, da Curitiba a Florianopolis e Porto Alegre, socio-economicamente equilibrato, ma in cui il sottosviluppo emigra e vi riemigra da nord portandovi un esercito di manodopera di riserva, a bassissimo costo, che zavorra verso il basso classe operaia e classi medie che ciclicamente si consegnano ai miti di famiglia, ordine, religione.

Lula dal 1° gennaio è di nuovo presidente, nonostante le ansie dei mesi del dopo elezione. In cui il suo predecessore aveva chiarito che non avrebbe passato le consegne a chi aveva vinto “fraudolentemente” le elezioni. E sollecitando l’esercito al golpe.

A Brasilia, dall’indomani delle elezioni, è sorta una città provvisoria, fatta di strutture in legno e tendoni, in cui sono confluite migliaia di persone che non hanno mai finito di reclamare l’intervento dei militari.

Lula ha pazientato. Tessuto. Anche colloquiato coi militari. Lui (e il suo entourage) che in Brasile è conosciuto come un politico raffinato. Capace di rinascere. Non ha la maggioranza in parlamento. Sta lavorando alla composizione del governo, alla distribuzione dei ministeri e degli incarichi nelle aziende pubbliche e para-pubbliche. Una via per allargare il suo spazio parlamentare, ricomporre un dibattito sul terreno democratico.

Jair Bolsonaro

La democrazia brasiliana con l’investitura di Lula ha vinto una battaglia: non è perfetta, ma Bolsonaro e la destra hanno perduto la maggioranza degli elettori e per il momento anche l’appoggio dell’esercito, paralizzato dalla democratizzazione di una parte dei suoi quadri oltreché dalla coscienza della divisione in due del paese e del pericolo di sommovimenti sociali violenti, nel caso di interventi “d’ordine”.

Ha perduto Bolsonaro. Hanno perduto i golpisti, l’agro-business e gli evangelici pentecostali, legati alla destra nordamericana. Hanno perso anche perché si erano affidati a un politico impresentabile, che qualche giorno prima del passaggio dei poteri con alcuni suoi assessori ha preso un aereo dell’Aeronautica militare e si è recato, ufficialmente per rimanervi sino al 31 gennaio, nella ricca Florida, terra di Trump di cui è stato emulo nel rifiutare il risultato delle urne. Scriveva il 1° gennaio Bruno Boghosian sulla Folha de S. P.: “Il ciclo di Bolsonaro porta il marchio di un politico che ha trascurato il ruolo di governante lavorando per il suo personale potere… trasformando la macchina pubblica in un armamentario volto a soddisfare i suoi desiderata”. Il giorno prima di andarsene, in un pronunciamento vittimista, Bolsonaro aveva praticamente ammesso di aver lavorato per il golpe militare e di avere perso.

Ma la fuga ha soprattutto altre ragioni. Il presidente inabrochavel (che non si ammoscia mai, come dichiarava con orgoglio) rischiava la prigione dal 2 gennaio, vista la decadenza del foro privilegiato e la possibilità di qualsiasi giudice di prima istanza di portarlo dietro le sbarre: è scappato Bolsonaro dalle accuse di aver gestito una presidenza che ha arricchito la sua famiglia e sprecato le risorse pubbliche in una politica pro domo sua e dei partiti che lo tenevano al potere. Lui ripeteva l’accusa di frodi elettorali, mai dimostrate, verso Lula e il PT. Quando basta guardare alla storia recente: il P. T. ha vinto 5 delle 8 elezioni presidenziali dal tempo del ritorno alla democrazia e nella altre 3 è risultato il secondo. Vitalità impressionante, che fa dire oggi che se latifondismo e razzismo sono ancora cancri che condizionano la vita del Brasile, la democrazia progressista ha messo radici e nessuno può più fare i conti senza di lei.

Bolsonaro lascia caos istituzionale, confusione tra poteri, tensioni sociali, un dibattito politico pubblico deteriorato. Lula non potrà partire per profonde riforme sociali. Dovrà barcamenarsi in parlamento. Ma sta meglio l’Europa? E il mondo? L’Italia, certo, è presa dai suoi problemi. E, provinciale, il giorno dopo l’assunzione del potere da parte di Lula, democraticamente eletto, ha ricevuto l’attenzione di un articolo di 30 righe con fotina dal Corriere della Sera.