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QT n. 4, aprile 2024 Seconda cover

Diga sul Vanoi: per l’acqua o per il cemento?

La riproposizione di un vecchio progetto, che continua a essere inaccettabile, perché non mancano proposte alternative, meno impattanti e meno costose.

Daniele Gubert

L’idea nasce più di un secolo fa, e riguarda molte strette valli alpine: chiudendole con una diga, si realizzano importanti bacini ad uso idroelettrico per alimentare la nascente e poi sempre più energivora industria di pianura. Ma mentre nel bacino imbrifero del Cismón, importante tributario del fiume Brenta, si realizzano gli invasi di Val Noana e Val Schenèr in Trentino (più quello di Fortebuso che “ruba” l’acqua dal bacino dell’Avisio), oltre quelli di Ponte Serra, Senaiga e Corlo in provincia di Belluno, nella selvaggia Val Cortella non si trova mai la quadra.

Il torrente Vanoi, che ha una portata rilevante e che nella storia alluviona ripetutamente e disastrosamente la comunità di Canal San Bovo, lì corre tra due versanti decisamente instabili, su un letto anch’esso geologicamente problematico. Generazioni di ingegneri non riescono a progettare colà un’infrastruttura sostenibile e sicura, quindi si guarda altrove.

Nei decenni si aggiungono ulteriori aspettative rispetto all’opera: laminazione delle piene, riserva d’acqua per l’agricoltura, navigabilità dei canali padani, utilizzo a fini turistico-ricreativi del risultante lago della capacità di 33 milioni di metri cubi. Finalità in conflitto tra loro e comportanti, tutte, continue variazioni nei livelli di riempimento.

L’emergenza idrica, specchio dei cambiamenti climatici, ora mette in crisi il modello di sviluppo della pianura, dove gli usi civili ed agricoli sono incrementati anche a seguito della crescita delle città e dello spopolamento della montagna. Il Consorzio di Bonifica Brenta con sede a Cittadella (Padova), controllato oggi da una componente politica assai sbrigativa sui temi ambientali e sociali, ci prova ancora una volta, perché il miraggio della Diga sul Vanoi viene rappresentato come una “grande opera” che risolverà d’un sol colpo qualsiasi problema di sicurezza idraulica e approvvigionamento d’acqua. E poi, inaspettatamente, ci sono i soldi facili del PNRR…

Le ragioni della contrarietà:

gli ambientalisti e gli amministratori trentini

Il valore ambientale ed ecosistemico del torrente Vanoi, che corre libero in Val Cortella per circa 8 Km fino a confluire nel Cismón, è sconosciuto ai più. Si situa in una gola tra il Monte Coppolo in terra bellunese e il Monte Totoga in terra trentina; la valle, scarsamente antropizzata proprio per la sua difficile accessibilità, racchiude e conserva una spiccata dinamica evolutiva naturale; il prezioso endemismo della Trota marmorata ne è un simbolico esempio.

L’occupazione di suolo sarebbe ingentissima, inducendo un pressoché totale pregiudizio di usi antropici alternativi, quali quelli legati al kayaking e al trekking fluviale; senza la realizzazione di nuova viabilità verrebbe penalizzata anche l’utilizzazione boschiva del Monte Totoga.

Il tema della sicurezza delle popolazioni che vivono a valle della massiccia diga che verrebbe realizzata è dirimente: nel contesto idrogeologico individuato, soggetto a cospicui e frequenti movimenti franosi, è legittimo chiedersi se i fattori mitiganti del rischio saranno sufficienti per escludere eventuali onde di piena o cedimenti strutturali.

Preoccupano inoltre i cambiamenti nel microclima locale, già estremamente umido anche in conseguenza dei numerosi laghi artificiali.

Il ristoro economico promesso sotto forma di produzione idroelettrica sarebbe “pleonastico”: attraverso le numerose centrali presenti sul territorio, la produzione attuale arriva già ad eccedere di un ordine di grandezza (10x) il fabbisogno locale.

La costruzione della diga di progetto, alta 116 metri, richiederebbe poi movimenti terra faraonici a consolidamento del versante della spalla destra e l’impiego di 250.000 mc di calcestruzzo (circa 20.000 camion), comportando per diversi anni un ingentissimo traffico pesante su una viabilità già problematica per l’accesso alle località turistiche di Primiero e San Martino di Castrozza le cui popolazioni residenti, di converso, gravitano sui servizi sanitari, scolastici e commerciali del feltrino.

Non va poi trascurato un significativo problema politico-istituzionale, di lesa sovranità territoriale: com'è possibile che la regione Veneto possa progettare imponenti infrastrutture al proprio servizio collocate nella Provincia di Trento senza l’assenso di quest’ultima?

In Trentino come in Veneto vanno adottate tutte le misure di risparmio della risorsa e valutazione di alternative sostenibili prima di invocare la “soluzione finale” che deresponsabilizza utenti e territori, portandoli a immaginare soluzioni impositive e non cooperative.

Cosa si può fare di diverso?

L’acqua è un bene comune, fonte primaria per la collettività. La solidarietà tra regioni, tra pianura e montagna è indispensabile: non è giusto sprecare o tesaurizzare la risorsa a scapito di qualcun altro.

Detto questo, prima di compromettere un’intera valle alpina, mettendo a rischio l’equilibrio ambientale e la sicurezza delle popolazioni, vanno valutate e preferite soluzioni a minore impatto e maggiore responsabilità in territorio veneto: l’efficientamento delle reti di distribuzione e di irrigazione, il riempimento di cave dismesse, la realizzazione di piccoli bacini più vicini ai luoghi di utilizzo; la pulizia degli alvei e dei canali, la messa a punto di casse di espansione per la sicurezza durante le piene. Fortunatamente in questa direzione già qualcosa si muove.

Per recuperare un enorme volume di accumulo basterebbe dragare sistematicamente la ghiaia e il limo dai bacini esistenti, interriti da milioni di metri cubi di materiale portato dall’alluvione del 1966 e dal consistente trasporto solido tipico dei torrenti alpini.

La diga di Val Schenèr ha una capacità d’invaso di 8,9 milioni di m³, di cui oggi solo 3,5 sono utili; per la diga di Ponte Serra, realizzata nel 1908, è stato progettato dai competenti comuni di Sovramonte e Lamon un intervento di recupero di 4 milioni di m³, che giace dimenticato a Venezia; il lago del Corlo, ultima tappa del Cismón prima di tuffarsi in Valbrenta, vede ridotto significativamente l’originario volume di bacino di 48,8 milioni di metri cubi.

La narrativa dominante associa il concetto di rinnovabile al settore idroelettrico. Ma se i bacini sono pieni di sedimenti e si pensa a costruire nuovi invasi invece che a ripulire e manutenere quelli esistenti, dovremmo parlare piuttosto nel medio-lungo periodo di prassi “usa e getta” dei territori delle valli alpine.

La pioggia di denaro preso a prestito dalla “next generation” col PNRR, potrebbe meglio essere impiegata per la rigenerazione dei bacini artificiali esistenti: queste opere manutentive sono state a lungo differite per gli alti costi, non affrontati forse per non intaccare la riscossione di ingenti canoni da redistribuire agli enti rivieraschi e la redditività da garantire ai concessionari idroelettrici.

Le Aree Forestali di Infiltrazione

Ma l’alternativa più promettente consiste nell’implementazione di sistemi di ricarica delle falde acquifere attraverso le cosiddette Aree Forestali di Infiltrazione (AFI), prelevando l’acqua direttamente dal fiume e immettendola nei naturali bacini sotterranei della fascia pedemontana che alimentano le risorgive.

Il medesimo ente che progetta e sponsorizza la realizzazione della diga del Vanoi, il Consorzio di bonifica Brenta (che si estende su una superficie di 70.933 ettari nelle province di Padova, Treviso e Vicenza) è leader in queste sperimentazioni e progettualità, finanziate dall’Unione europea (Life) e dal Ministero dell’Ambiente e ideate originariamente da Veneto Agricoltura, l’agenzia veneta per l’innovazione nel settore primario, già a metà degli anni 2000. Suo nuovo direttore è Nicola Dell’Acqua, oltre a ciò fresco Commissario straordinario nazionale per l'adozione di interventi urgenti connessi al fenomeno della scarsità idrica, investito di pieni poteri dal governo, che quindi conosce perfettamente le AFI e il loro potenziale.

Sul sito www.consorziobrenta.it si trovano pannelli illustrativi che così descrivono la ricarica delle falde: “Il fiume Brenta è strettamente legato alla falda acquifera sotterranea, preziosa fonte idrica. Il modello idrogeologico della pianura Veneta vede un substrato roccioso sopra il quale si è costituito nei millenni un potente materasso ghiaioso, nei cui pori è presente, a una certa profondità, la falda acquifera sotterranea. Questa ha caratteri freatici fin dove, più a valle, le ghiaie tendono ad alternarsi alle argille, impermeabili: qui si formano le falde artesiane (con flusso in pressione). Nella zona di passaggio tra i sistemi freatico e artesiano si originano le risorgive. Esse, oltre ad essere una importante fonte d’acqua, presentano caratteristiche di eccezionale valenza ambientale. Il Consorzio ha infatti realizzato alcune aree forestali di infiltrazione. Sono terreni in cui sono state scavate delle scoline, affiancate da alberature, in cui viene fatta scorrere acqua nelle stagioni di abbondanza, che così si infiltra nel terreno, molto permeabile, per ritrovarla in falda e nelle risorgive”.

Su “Acque Sotterranee - Italian Journal of Groundwater” (2014), G. Mezzalira, U. Niceforo e G. Gusmaroli scrivono: “Oltre a contribuire al riequilibrio quantitativo delle falde, le AFI consentono potenzialmente di innescare fenomeni di fitodepurazione (depurazione naturale) delle acque di infiltrazione, che possono essere opportunamente sfruttati per finalità di tutela degli acquiferi.

Inoltre le superfici forestali, che vengono messe a dimora e coltivate per favorire l’immissione di acque superficiali nel sottosuolo grazie all’azione degli apparati radicali, possono essere gestite con ulteriori molteplici finalità, come la produzione di energia rinnovabile nella forma di biomassa legnosa o la riqualificazione ambientale-paesaggistica o la valorizzazione fruitivo-didattica. In questo senso tali impianti, attraverso la produzione di specie arboree, concorrono a creare interessanti opportunità integrative di reddito per gli agricoltori e vantaggi economici che rendono sostenibile la loro diffusione.

Le AFI svolgono dunque numerose funzioni positive per la comunità (servizi ecosistemici di interesse collettivo): ricostituzione del patrimonio idrico sotterraneo; rinascita delle risorgive; incremento della disponibilità di acqua per l’irrigazione; miglioramento della qualità delle acque sotterranee, riducendo la contaminazione da nitrati; produzione di energia rinnovabile; riduzione dell’emissione di gas serra; miglioramento del paesaggio; incremento della biodiversità”.

Dalle analisi effettuate dal Consorzio di Bonifica Brenta sui valori di infiltrazione idrica delle zone sperimentali emerge che l’estensione delle AFI ad un’area di circa 100 ettari porterebbe a poter tesaurizzare “qualche decina di milioni di metri cubi d’acqua, valore molto significativo”.

C’è un solo problema, la “bottom line”. Questa virtuosa soluzione alternativa può arrivare a costare, a parità di risultato in termini di “acqua in cassaforte”, fino a 100 volte meno del cosiddetto “Serbatoio del Vanoi”, preventivato per 150 milioni di euro (ma tutti dicono che non basteranno).

Viene da pensare allora che il vero obiettivo non sia quello di dissetare l’agricoltura, uomini, piante e animali, bensì le fameliche, sempre attive lobby del cemento.

* * *

Daniele Gubert è un attivista del “Comitato per la Difesa del torrente Vanoi e delle Acque Dolci”

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