Stava, 40 anni fa la tragedia
Un disastro tutt’altro che naturale, che oggi è opportuno riesaminare. C’è ancora molto da imparare buonismo che c’è, fa bene, è importante
Quarantaanni fa, il 19 luglio 1985, alle ore 12,23 collassarono i bacini di decantazione che purificavano la fluorite che veniva estratta dalle miniere di Prestavel, poco sopra. O meglio, per esattezza, franò la discarica del materiale di risulta, 300 mila metri cubi lasciati incustoditi, una discarica strutturata a mo' di diga su due livelli: il secondo, quello a monte, poggiava sul primo, un deposito in forte pendenza e insistente su una zona umida definita “Le Pozzole”.
La frana si sviluppò lungo la valle di Stava provocando 268 morti, a 71 dei quali non è stato possibile dare un nome: si recuperavano brandelli di corpi. La lunga scia di distruzione ruppe un incanto, un luogo di accoglienza turistico servito da tre alberghi e qualche ingombrante villetta.
Si deve avere chiaro che si trattò di una tragedia industriale, non certo naturale. Una tragedia prevedibile, annunciata – scrivemmo - frutto di una diffusa incoscienza, superficialità, inadeguatezza, supponenza di tecnici, politici e della componente aziendale che gestiva il manufatto, la Prealpi mineraria. La componente politica uscì indenne dai processi: gli amministratori del Comune, quanti allora governavano la Provincia (la Democrazia Cristiana), il presidente Flavio Mengoni, i dirigenti provinciali dei servizi minerari, industria, foreste, i pianificatori. Lo si deve ripetere: non crollò una miniera, ma il materiale accumulato nella “laveria” sottostante. Si trattava di una lavorazione industriale (e non mineraria): il materiale, per essere lavorato, fin dal 1982 veniva portato anche da altre lontane località. Vi si svolgeva un trattamento di decantazione chimico-fisico dei materiali, oltre 200 tonnellate/giorno tramite flottazione e con l’ausilio di sostanze chimiche. Per comprendere il livello dell’incoscienza si deve sapere che si stava preparando un terzo livello. Fin dall’anno precedente il servizio foreste, responsabile della gestione del vincolo idrogeologico, aveva martellato (cioè assegnato) le piante che dovevano essere tagliate per fare posto al nuovo terrapieno.

Nonostante l’ingente mole, il deposito non era inserito né nella pianificazione comunale né in quella urbanistica provinciale. Il sindaco, interpellato dal sottoscritto, rispose: “Non ho alcuna competenza nella gestione della miniera. Se ne occupa in tutto l’ufficio minerario”. Tanto per dimostrare come l’amministratore nemmeno conoscesse le sue ovvie competenze in tema di pianificazione e gestione della sicurezza del territorio.
La miniera non era sconosciuta agli abitanti di Tesero. Attiva fin dal 1935, vi si estraevano, oltre alla fluorite, anche blenda e galena, minerali dai quali si ricavano zinco e piombo. Dal punto di vista amministrativo aveva avuto più passaggi di proprietà: dapprima Montecatini, dal 1967 passò alla Montedison, dal 1976 alla Fluormine e nel 1980 alla Prealpi mineraria.
Dai 116 ettari occupati inizialmente si passò a 330 ettari. Veniva portato materiale di escavazione dalle miniere di Quaria-Kooreck (Nova Ponente) e dalla vicina Val d’Ega: era la risulta del materiale estratto da queste miniere. A forza di accumuli si ebbe bisogno del secondo bacino, autorizzato in Provincia nel 1969. Il Comune di Tesero nel 1974 chiedeva all’assessorato all’industria un parere sull’ampliamento, e per rasserenare le perplessità si mosse anche il distretto minerario, ma sempre con un obiettivo: cancellare i dubbi.
La storia della miniera era partita da concessioni di escavazione ottenute dalla Montecatini fin dal 1935, solo nel 1962 si procedette all’estrazione della fluorite e poi tutto fu passato alla Montedison che nel 1967 potenziò l’attività, tanto da arrivare a costruire una serie di abitazioni per i dipendenti e i loro famigliari. La fluorite è una roccia che fonde velocemente e, divenuto un prodotto puro, è un catalizzatore utile alla riduzione elettrolitica dell’alluminio (veniva trasportato oltre che a Marghera agli stabilimenti di Mori e Bolzano). Si arrivò a dare lavoro a oltre 200 dipendenti.
Dei gelatai a gestire la discarica
I problemi erano subito apparsi evidenti al mondo dei pescatori. Nel sottostante rio Stava arrivava acqua color cenere, limacciosa, la moria di pesci nel tratto alto divenne totale. Ma i pescatori non ebbero alcuna soddisfazione dalle autorità.
L’attività della miniera si concluse negli anni ‘70, fino all’acquisto della concessione e successiva riapertura nel 1982 da parte di Prealpi. Più che l’escavazione del materiale agli impresari interessava l’uso della “laveria” e infatti venivano qui portati materiali da oltre 200 chilometri di distanza, dalla miniera di Torgola in val Trompia (BS) e da altre ancora.

Chi visitò la gestione dei “bacini” vi trovò abbandono e approssimazione. Sul secondo livello c'era una ruspa che interveniva a coprire i frequenti squarci che si aprivano sui versanti quasi verticali. Chiunque poteva inserirsi nel cantiere, infatti alcuni ragazzi del paese vi salivano per fare dei bagni, nonostante l’acre odore: le precauzioni messe in atto dall’azienda erano nulle.
Tra gennaio e marzo 1985 vi erano stati dei crolli sul versante del bacino superiore: ma nonostante questo nel giugno 1985 iniziarono i lavori dell’ampliamento dei bacini, piano approvato dal Consiglio comunale il 23 novembre 1984.
Ma chi erano i fratelli Rota della Prealpi mineraria? Imprenditori gelatai passati a gestire miniere. Competenza specifica pari a zero. Cosa poteva impportare loro delle dichiarazioni dell’ing. Daniele Rossi che anticipava ai suoi studenti come “quella diga ha un argine di merda!”. Il giudice Ancona ricorda la superficialità dell’amministratore delegato scrivendo a proposito delle dichiarazioni in tribunale dello stesso: “Nelle sue risposte era condensata tutta l’indifferenza, l’arroganza, la presunzione, l’insieme delle scelte aziendali tese soltanto al profitto immediato, che caratterizzarono le condotte degli imputati poi condannati”.
Tutto rimase così gestito fino a quando, dopo un mese di continue piogge più o meno intense (giugno-luglio 1985), il fronte della discarica, alto 55 metri, crollò. Un’enorme massa di materiale di scarto, 160 mila metri cubi, si infilò nella valle percorrendola a oltre 90 Km/h: quattro chilometri dritti, fino alla confluenza del torrente Stava con l’Avisio, trascinando con sé edifici e persone. Chi dal ponte di Tesero della statale 48 assistette incredulo all’evento vide prima crollare le abitazioni, poi risucchiate nella successiva colata fangosa che scorreva a valle in un grande frastuono.
I politici escono puliti.
La valle intera dovette coltivare un dolore immenso. Il Trentino provò vergogna per come gestiva il suo territorio. Il sindaco Adriano Jellici e il vicesindaco Pietro Deflorian scaricarono le responsabilità sui servizi della Provincia; i politici trentini rimasero sorpresi. Le autorizzazioni all’ampliamento erano state date dalla Provincia, non si era proceduto ad alcun calcolo statico sul secondo bacino, diverse relazioni dei tecnici provinciali nemmeno erano firmate. Riferisce il giudice Carlo Ancona che a Stava non c’era nulla, né un progetto, né un pezzo di carta che documentasse la gestione del sito.

Sull’insieme della vicenda si provò a fare cadere più silenzio possibile. Nonostante Tesero allora vivesse di un florido artigianato e di una diffusa media industria, ci si preoccupava della vetrina turistica che non doveva venire intaccata da alcuna ombra e quindi il ricordo andava cancellato.
Le sentenze condannarono alcuni tecnici, ma nessun politico venne coinvolto nonostante l’impegno profuso da alcuni avvocati di parte civile, il collegio dei sinistrati di Stava sostenuti dagli avvocati Sandro Canestrini e Vanni Ceola in collaborazione con altri, il collegio delle ACLI di Milano con 43 parenti di vittime difese. Due collegi che i media avevano fin da subito emarginato dall’informazione e dei quali ancora oggi non si fa menzione.
La terza componente, quella ufficiale gestita dalla Democrazia Cristiana, aveva rivolto l’attenzione al risarcimento economico e affettivo dei danni. Per descrivere il clima che si viveva allora riportiamo una frase dell’avvocato Vanni Ceola pronunciata a Tesero in un’assemblea pubblica dei sinistrati il 7 agosto:”Siamo stati definiti degli avvoltoi. Noi amiamo gli animali e preferiamo stare con gli avvoltoi piuttosto che con gli uomini del potere, uomini che difendono il potere in quanto è stato un certo potere a permettere lo svolgersi di questa disgrazia”.
Scriveva il giudice istruttore Carlo Ancona tendendo a escludere responsabilità politiche: “Una valle trasformata in pattumiera... sugli effetti di tale scelta essa era propria degli amministratori della Provincia, e in sede penale non poteva avere rilevanza, ma in concreto svolse un ruolo essenziale sulla storia della miniera e dei bacini”- Dichiarazioni fra loro contraddittorie, così almeno si rileva.
Ci sono aspetti della tragedia che sono rimasti trascurati.primo. Nell’ultimo periodo si utilizzava come rafforzamento alla decantazione del materiale radioattivo, il Radio (nome in codice R -166). Si affermò si trattasse di soli duecento grammi. Ma se la quantità era tanto minimale, non si comprende perché subito dopo la tragedia i fusti vennero murati. Per mettere in sicurezza le tante gallerie di accesso alla miniera, si disse. Nessuno verificò, nonostante accese polemiche.
40 anni dopo
Cosa rimane oggi da ricordare? Difficile rispondere, anche perché non si deve offendere il dolore di un’intera comunità dapprima ricca di fiducia e che in un attimo si ritrovò sbandata, trafitta. Oltre ai morti, fra case e alberghi sparirono 56 edifici, sei capannoni artigianali, otto ponti e altri 9 edifici risultarono danneggiati.
Va detto. La valle di Stava di oggi è irriconoscibile per quanti la ricordano com’era prima della tragedia. La sobrietà degli edifici di allora è stata stravolta. Gli alberghi sono stati ricostruiti arrivando anche a superare il raddoppio dei volumi, altri nelle pertinenze sono nuovi, vi sono abitazioni e aziende diffusi in modo disordinato un po’ ovunque. Come risarcimento alla valle intera si ottenne lo svolgimento dei primi mondiali di sci nordico nel 1991, con l’imposizione della strada di fondovalle, che oltre ad aver distrutto il corso dell’Avisio non ha risolto compiutamente i problemi del traffico e dell’inquinamento nei paesi a mezza costa.
Si era addirittura parlato di portare in località Pozzole un’area sciabile, un campo scuola per ragazzi, ma le proteste di pochi annacquarono questa ulteriore follia. Gli ambientalisti proponevano la realizzazione di un bosco della memoria. Un bosco ricco di specie, un grande giardino più che un bosco, un parco alberato che invitasse al rispetto e al silenzio all’interno del quale inserire sentieri leggeri che avrebbero permesso di ripercorrere la storia del luogo e fissare, anche con la vista, il luogo della memoria. Nulla si è fatto: si è preferito lasciare spazio al solito monotono bosco di conifere, un fitto bosco che impedisce ogni ricostruzione visiva della tragedia. In valle si trova la sede della Fondazione Stava 1985, che conserva un ricco archivio, anche fotografico. Vi è un sentiero della memoria, trascurato, che andrebbe gestito con maggior attenzione.
Il processo
Il procuratore dell’inchiesta fu il discusso Francesco Simeoni. Dieci dei dodici imputati vennero condannati in tempi veloci (Cassazione, 1991) a un totale di 37 anni di carcere, dichiarati colpevoli di disastro e omicidio colposo plurimo. Ma, come abbiamo accennato, nessun amministratore pubblico, né comunale né provinciale, venne coinvolto, nonostante l’avvocato Canestrini in aula avesse dimostrato come la tragedia fosse stata “un delitto politico”.
Il Presidente della Provincia Flavio Mengoni fu portato a rassegnare le dimissioni. Gli successe Pierluigi Angeli, che diede vita al primo coinvolgimento in Provincia dei socialisti rompendo la sequenza dei monocolori democristiani. Di quel periodo rimane scolpito negli atti politici e nella memoria l’immane lavoro dell’assessore Walter Micheli. Partendo da un evento tragico, investì da subito in un una rinascita virtuosa dell’autonomia trentina definendo leggi innovative (Piano urbanistico, parchi, progettone e molto altro) grazie al recepimento delle nuove normative europee in materia di tutela dell’ambiente; inoltre riorganizzò servizi e competenze, investì nella trasparenza e nei processi partecipativi. Un lungo percorso che da oltre un ventennio ha trovato chi è riuscito a svilirlo: le prime picconate da parte delle giunte di Lorenzo Dellai, per arrivare ai nostri tempi con la demolizione di ogni prospettiva di tutela del territorio grazie ai governi Fugatti.
Proprio per ricordare la qualità del lavoro svolto da Walter Micheli riportiamo una sua riflessione che rilasciò a Questotrentino vent’anni dopo la tragedia, nel luglio 2005: “Le leggi, anche le buone leggi, non bastano se non sono vissute come cultura acquisita di un popolo. Per questo dobbiamo far nascere un’altra fertile stagione, sperando che questa volta non sia frutto del dramma, ma della ragione e della responsabilità”.
Quanto sono amare queste parole! L’azione politica e sociale di Micheli non divenne patrimonio della collettività e dell’autonomia del Trentino. Oggi, malgrado l’evidenza dei cambiamenti climatici e delle conseguenti emergenze, la situazione culturale in Provincia è, se possibile, ulteriormente peggiorata e il ricordo della tragedia ridotto a rituale.