L’inquinamento e la giustizia
Intervista al magistrato argentino Antonio Gustavo Gómez. Rendere effettiva la giustizia ambientale? Difficile, ma si può fare
Arriva da Tucumán, nel nord dell’Argentina, ma porta con sé le radici della Patagonia dove è nato e cresciuto. Antonio Gustavo Gómez è un magistrato in pensione che per oltre vent’anni ha scelto un fronte preciso: la giustizia ambientale. Procuratore generale presso la Camera Federale di Tucumán, è diventato un punto di riferimento in America Latina per le sue indagini contro l’inquinamento industriale, le attività minerarie e l’uso indiscriminato di pesticidi. Il suo nome è legato a processi di grande risonanza, come quello contro la Minera Bajo La Alumbrera, una delle più imponenti compagnie estrattive del continente, accusata di contaminare fiumi e territori. Gómez è convinto che i reati ambientali non siano danni collaterali dello sviluppo, ma veri e propri crimini: basta il rischio concreto per la salute e per l’ecosistema perché scatti la responsabilità penale. E dietro ogni caso di devastazione ambientale c’è quasi sempre un funzionario compiacente o un’autorità che ha chiuso un occhio.
Accanto al lavoro nei tribunali, Gómez ha fatto della divulgazione un’altra forma di impegno: partecipa a incontri con comunità locali, università, festival culturali, e rappresenta l’Argentina in reti internazionali di magistrati ambientali e persino in missioni tecniche alle Nazioni Unite. La sua storia mostra come il diritto possa diventare uno strumento di difesa non solo per i cittadini, ma per l'ambiente stesso. Lo abbiamo incontrato al Vigilianum, il polo culturale della Diocesi, prima di una delle sue conferenze in programma a Trento.
Inizierei con una questione preliminare, che forse dovremmo tenere per la fine della nostra conversazione: in questi mesi, in questi anni, che senso ha parlare di diritti? Viviamo un momento in cui i diritti sono travolti dal potere politico autoritario, lo vediamo in America, in Argentina, …

“Sono arrivato in Italia, casualmente, in un periodo molto importante per i crimini ambientali: ci sono 60 giorni per modificare e ratificare il decreto legge n. 116 dell'8 agosto 2025 (Disposizioni urgenti per il contrasto alle attivita? illecite in materia di rifiuti, per la bonifica dell’area denominata Terra dei fuochi, nonche? in materia di assistenza alla popolazione colpita da eventi calamitosi, n.d.r.). Questo decreto legge non include il delitto di pericolo ambientale astratto. Il pericolo ambientale astratto più caratteristico è il narcotraffico: non è necessario che qualcuno si ammali o muoia, o che un animale muoia, per sequestrare un chilo di cocaina. Il narcotraffico in Italia è simile a quello in Argentina, però il nostro ordinamento contempla questo delitto anche in materia ambientale. Un camion che attraversa l'Italia, senza autorizzazione, con un carico di rifiuti tossici è una infrazione amministrativa; in Argentina è un crimine ambientale penale. In Argentina i cittadini e le associazioni possono querelare e chiedere una condanna anche senza un'accusa formalizzata del procuratore generale. Il processo può andare avanti, in appello, anche dopo l'assoluzione e al querelante è garantito il patrocinio gratuito. La legge argentina riconosce la responsabilità del reato ambientale non in capo al camionista ma al titolare dell'azienda. Questo si chiama diritto penale oggettivo: il principio è condannare il vertice di chi ha commesso il reato. In Italia invece il diritto penale è soggettivo”.
In Italia ci sono mille cavilli per salvare i potenti, mi meraviglio che non ci siano anche in Argentina.
“Ci sono, ma non in tema ambientale. Negli anni le organizzazioni ambientaliste, come Greenpeace, e le organizzazioni in difesa dei diritti umani sono state molto attive per contrastare gli effetti della dittatura, e sono riuscite a intervenire sulle leggi affinché non ci fossero scappatoie. Per esempio, i sindacati dei lavoratori del porfido, che qui hanno denunciato i problemi nelle cave, se riscontrassero una contaminazione ambientale nelle cave argentine, potrebbero promuovere una causa. Non è necessario essere cittadini argentini.
Il decreto legge dell'8 agosto 2025 di cosa si occupa?
“Tipizza i delitti ambientali senza però la caratteristica di pericolo astratto. In Italia il camion, se sversa i rifiuti tossici in un fiume, è perseguibile se mette in pericolo la vita stessa del fiume: questo è un pericolo ambientale concreto”.
In Argentina lei è stato tra i primi magistrati a occuparsi di crimini ambientali con gli strumenti tipici del diritto penale. Quanto è difficile, dal punto di vista giuridico, far riconoscere un danno ambientale come un reato contro la collettività?
“Il danno ambientale è un concetto perverso perché è un delitto di pericolo. Faccio un esempio: devi aspettare che una persona muoia di overdose per perseguire lo spacciatore, in materia ambientale si devono raccogliere le prove dell'inquinamento”.
La correlazione tra inquinamento da Pfas e malattie tumorali in Veneto (lo scorso 13 maggio, la Sezione Lavoro del Tribunale di Vicenza, con sentenza n. 251, ha certificato per la prima volta in Italia un decesso attribuibile alla contaminazione da Pfas, n.d.r.) può essere utilizzata come prova del danno alla collettività?
“Al 100%”.
Occorre arrivare al morto o basta l'inquinamento potenzialmente mortale?
“L'inquinamento potenzialmente mortale in un fiume è un pericolo concreto, ed è sufficiente in Italia per aprire una causa per danno ambientale. Se una miniera utilizza il cianuro per estrarre l'oro, è già di per sé un reato in Argentina; in Italia è reato lo sversamento. È molto sottile la linea, e l'accusa deve provare lo smaltimento illegale. Ogni anno le aziende in Argentina devono presentare un report di impatto ambientale e dichiarare le quantità di metalli pesanti che smaltiscono nei corsi d'acqua”.
Se c'è molta corruzione, può essere falsa la dichiarazione.
“Il documento è veritiero. La corruzione sta nel funzionario pubblico che convalida l'autocertificazione oltre i limiti di legge e non agisce per far punire le imprese. Ho una mia massima: dietro a ogni crimine ambientale, c'è sempre un funzionario pubblico corrotto. Una multinazionale ha investito in Argentina 6 miliardi di dollari nella provincia di Catamarca: i dati dichiarati erano sempre molto più alti del consentito. Era tutto scritto. L'impresa stessa riconosceva di aver commesso un delitto, a me non restava altro che accusarla. La tecnica di investigazione di un crimine ambientale deve puntare sul suo tallone d'Achille: il funzionario pubblico, non l'impresa. C'è una metafora: 'dobbiamo bastonare il maiale perché compaia il padrone'. Si accusa il funzionario pubblico di coprire un crimine ambientale”.
Ha mai ricevuto pressioni da parte dell'autorità politica?
“Sempre. Se indagavo sul narcotraffico, la polizia era al mio fianco, il governo era dalla mia parte; se indagavo su un crimine ambientale, la polizia e il governo stavano dalla parte dell'impresa”.
E cosa facevano? Quali erano le azioni concrete della polizia?
“Se ordinavo una perquisizione, per esempio, la polizia avvisava l'impresa. Come procuratore generale in Argentina avevo a disposizione cinque corpi di polizia per investigare. Invece di utilizzarne una della mia giurisdizione, ne incaricavo una da lontano senza anticipare i contenuti dell'indagine, per evitare la fuga di notizie. Esattamente come per il narcotraffico”.
Lei ha lavorato in un Paese vastissimo, con conflitti legati a deforestazione, estrazioni minerarie, estrazioni di petrolio tramite fracking e uso di pesticidi. Quali punti di contatto vede con il contesto europeo, e in particolare quello italiano, dove spesso i reati ambientali si intrecciano con le mafie?
“La parola 'mafia' non ha lo stesso significato in Argentina. In Italia, la mafia è una organizzazione familiare che esercita un'attività criminale specifica. Il crimine ambientale in Argentina è commesso dalle imprese multinazionali, non è vincolato alla mafia. L'ecomafia in Italia, fondamentalmente, si occupa dello smaltimento illegale dei rifiuti che producono le imprese. In Argentina le multinazionali estraggono oro, petrolio, deforestano e controllano il territorio; loro alla fine si comportano come i mafiosi. Vengo in Italia dal 2009 e mancavo da sette anni. Quando sono arrivato, ho incontrato a Milano le autorità giudiziarie: sono molto preoccupate perché il decreto legge dell'8 agosto cambia molte cose in materia ambientale. Una direttiva dell'Unione Europea - che deve essere recepita entro il 21 maggio 2026 – contiene una lista completa dei delitti e prevede una protezione speciale per la persona che denuncia un crimine ambientale. L'Italia non ha nulla di tutto questo”.
C'è una buona notizia e una cattiva notizia. La buona è la direttiva europea, la cattiva è il mancato recipimento con il decreto legge dell'8 agosto 2025. In tutta una serie di Paesi, tra cui l'Italia, c'è una minore attenzione ai diritti e quindi verso anche al diritto di vivere in un ambiente sano.
“Se c'è una legge, non è garantito che venga applicata. L'esperienza particolare dell'Argentina è la presenza degli aborigeni che sono le prime sentinelle del pericolo ambientale. Il popolo originario si sente parte del territorio, della Pachamama (la Madre Terra, n.d.r.); se la Pachamama soffre, gli aborigeni lo sentono e si organizzano, per esempio, bloccando le strade”.
Quanto conta la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e una forte domanda sociale di giustizia ecologica per sostenere l’azione della magistratura in materia ambientale?
“È fondamentale. Al termine delle mie conferenze mostro una vignetta: c'è una gru che si mangia un rospo, il rospo le stringe il collo. La zampa di destra sono i movimenti sociali, la zampa di sinistra è la giustizia ambientale. Devono lavorare insieme, perché uno da solo non ce la fa”.
In prospettiva, pensa che il riconoscimento giuridico di “ecocidio” come crimine internazionale potrà diventare una realtà?
“Credo di sì. Papa Francesco, prima di morire, ha parlato dell'“ecocidio” come di un grave problema di cui si dovrebbe occupare la Corte penale internazionale. Modestamente penso che questo delitto debba essere incluso nello Statuto di Roma” (il trattato che ha istitutito nel 1998 la Corte penale internazionale, n.d.r.).
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Di Antonio Gustavo Gomez pubblichiamo un articolo nella rubrica “Dal mondo” a pag. 30.