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Diritto internazionale: un problema da risolvere

Dopo il Kosovo e Timor-Est: come superare l’anacronistico principio della sovranità nazionale nella difesa dei diritti umani?

Le vicende del Kosovo e di Timor ripropongono in termini identici e specularmente rovesciati la medesima questione: in che modo è possibile tutelare una minoranza di cui all’interno di uno Stato vengono violati i diritti umani? A tutt’oggi il principio della sovranità nazionale costituisce un ostacolo, se non addirittura un tabù, a interventi dall’estero, per cui è accaduto e tutt’ora accade che interi popoli vengono massacrati senza che la comunità internazionale muova un dito. Un esempio fra tanti: il tragico destino dei Curdi. In altri casi invece l’intervento militare c’è stato, in violazione della sovranità nazionale, del diritto internazionale e, per quanto ci riguarda, della Costituzione italiana. E’ il caso della guerra della Nato contro la Repubblica Jugoslava per la difesa dei diritti umani in Kosovo (almeno così è stata motivata la guerra). Anche per Timor, con ritardo ed esitazioni colpevoli, si profila un intervento internazionale questa volta pacifico (almeno si spera) per difendere la popolazione timorese dalle violenze e dalle stragi indonesiane. In questo caso l’invio delle truppe internazionali avviene non in violazione, ma secondo le norme e le procedure previste dall’Onu, e per far rispettare l’esito di un referendum che ha sancito con il 78% dei sì l’indipendenza dell’isola (che l’Indonesia osteggia). Le due vicende ripropongono con forza il problema: come sia possibile tutelare i diritti umani all’interno di Stati terzi, superando il confine della sovranità territoriale. Non si può più tollerare infatti che all’interno dei propri confini chi detiene il potere violi i diritti umani dei cittadini, li perseguiti (per esempio in base all’etnia), non rifuggendo dalla violenza fisica e perfino dai massacri. In questi casi la coscienza umana (cioè la consapevolezza emotiva e culturale cui siamo giunti) sente che bisogna intervenire anche energicamente, non esclusi i mezzi militari, per porre fine a persecuzioni e violenze. Qual è dunque il problema?

Si tratta di trasferire in ambito internazionale una regola valida già all’interno di ogni Stato. In Italia l’art. 52 del Codice penale formalizza il diritto di "legittima difesa", disponendo testualmente: "Non è punibile chi ha commesso il fatto (per esempio, violenza fisica, bastonate, ferimento, uccisione) per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio (esempio: integrità fisica, vita) od altrui (la sottolineatura è mia) contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa" (la sottolineatura è mia). In base a questa regola fondamentale si può legittimamente difendere da una aggressione anche uno sconosciuto. Se per esempio uno che passa per strada, anche un estraneo, è sotto minaccia di essere colpito da un aggressore armato, si può intervenire a sua difesa anche con le armi, arrivando se necessario a uccidere l’aggressore. Questa regola esiste anche nel diritto internazionale, ma è valida solo fra Stati sovrani (art. 51 dell’Onu e art. 5 della Nato): non può essere utilizzata da uno Stato, o da un gruppo di Stati, per difendere una minoranza perseguitata all’interno di uno Stato terzo. Bisogna ora superare questo limite, fare un salto di qualità che allarghi l’orizzonte del diritto internazionale e il suo respiro culturale. Si deve però convenire che il passaggio, pur necessario, è difficile e delicato per le seguenti ragioni: 1. chi sarà abilitato a decidere quando un diritto altrui è esposto a un pericolo attuale di una offesa ingiusta? 2. Chi giudicherà che l’intervento è necessario e proporzionato all’offesa? 3. Chi avrà il diritto di decidere l’intervento, la sua natura (per esempio, militare), ed i suoi limiti? Ci si rende conto subito a quanti e quali rischi si va incontro in mancanza di una autorità internazionale legittimamente costituita ed effettivamente rappresentativa che abbia il potere di giudicare e decidere. Nel diritto interno sono i tribunali (o le Corti d’Assise) che giudicano "ex post" se si è agito per legittima difesa oppure no. Nel diritto internazionale non si può attendere il dopo (che può essere al termine di una guerra illegittima, sbagliata e disastrosa), ma il giudizio deve avvenire "ex ante", cioè prima dell’intervento (di qualunque tipo esso sia). Può accadere infatti che uno Stato o un gruppo di Stati, con il pretesto (inventato o esagerato) di tutelare una minoranza oppressa, scateni una guerra rovinosa per motivi diversi da quelli dichiarati. Ciò può accadere anche in buona fede, quando di fronte alla effettiva persecuzione di una minoranza si ritenga (per errore) che sia esaurita ogni possibilità di trattativa e che non resti che intervenire militarmente, considerando l’intervento proporzionato all’offesa.

Che fare allora? Non certo seguire l’esempio della Nato, che unilateralmente (senza copertura internazionale), con uno sciagurato e sproporzionato intervento militare contro la Serbia non ha raggiunto nessuno degli obiettivi dichiarati, ha favorito una nuova pulizia etnica (questa volta contro i serbi), ha rinsaldato il potere di Milosevic ed ha ulteriormente destabilizzato l’area balcanica. E ciò è avvenuto, giova ribadirlo, perché l’intervento della Nato ha violato ogni regola internazionale. E’ da queste invece che bisogna ripartire, andando oltre, allargando i poteri dell’Onu, modificando il suo Statuto, ridefinendo il diritto di veto (limitandone l’uso a casi particolari, o sostituendolo con maggioranze qualificate). L’obiettivo da raggiungere è quello di formalizzare con regole precise il diritto di legittima difesa (cioè d’intervento) a favore di minoranze (o di maggioranze) perseguitate entro i confini di Stati terzi, superando il limite anacronistico della sovranità nazionale, che non può più essere considerato superiore alla difesa dei diritti umani. Questo necessario passaggio non è stato favorito dalla recente guerra balcanica, che invece di utilizzarle ha spregiato le norme esistenti, facendo arretrare la coscienza giuridica e applicando con arroganza l’antica legge del più forte.

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