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“Egli”

Franco Rella, Egli. Edizione Tre Lune, Mantova, 1999, pp. 184, £. 28.000.

L'impressione è di leggere una"specie di diario", questo in cui Franco Rella ripercorre la sua via di scrittore attraverso gli autori con i quali, inciampandovi, ha dialogato, e che ha costretto, lontani, a dialogare fra loro. Non sembri spregiativa la definizione: una "specie di romanzo" definisce anche Proust la sua opera. Diario intessuto di saggi, racconti, citazioni di testi, e poesie, soprattutto.

Ma poi l’autore afferma, improvvisamente, a pagina 87, di non essere mai riuscito a tenere un diario con regolarità, e a conferma ne riporta alcune pagine sparse, scritte in deroga alle forme di scrittura più amate. Pagine che però io considero di diario nel diario e, oltre l’"Er" -l’"Egli" del titolo- un omaggio a Franz Kafka, appunto "il più grande scrittore di Diari di questo secolo". Il quale nell’aforisma "Der wahre Weg" scrive: "La vera via corre lungo una corda che non è tesa nel vuoto, ma appena appena sopra la terra. Sembra fatta più per inciamparvi che per camminarvi sopra."

Sono, infatti, tante le contraddizioni in cui inciampiamo, i vuoti e i pieni, le luci e le ombre, i ricordi e l’oblio. E l’ignoranza e il sapere, l’implosione e l’apertura, il disordine e l’ordine, la vita e la morte, di cui ogni storia è gravata. In definitiva il bene e il male. Un tempo questi conflitti avrebbero trovato soluzione nella dialettica, che sapeva volgere anche il negativo in positivo. Oggi permane l’ossimoro dei "doppi pensieri". Scrive Rella: "Come è possibile che io ricordi gioiosamente la tristezza, e tristemente la gioia?" Ma anche Freud scrive che "l’unica interpretazione sicura è l’insicurezza."

Torniamo a un altro aforisma di Kafka: "Es gibt ein Ziel, aber keinen Weg; was wir Weg nennen,, ist Zoegern." Il ritmo martellante dell’originale tedesco ci mostra con efficacia la frattura incolmabile fra la meta e la strada: è "insicurezza" ciò che noi, ingenui, chiamiamo "via".

Franco Rella dichiara di non avere competenze musicali. Anch’io non maneggio le note, eppure quando ascolto i frammenti di Kafka musicati da Gyorgy Kurtàg, la voce del soprano sembra riuscire per un momento a indicare la via, anche se poi il violino che stride la cancella come un vento d’autunno.

Il logos della scienza e della filosofia è sempre più inadeguato a spiegare la complessità della vita, ma i linguaggi delle arti, contaminandosi, qualche frangia ne comprendono ancora.

Già Baudelaire affermava l’indistinguibilità della vittima e del carnefice nell’atto amoroso. Forse nemmeno la poesia può parlare del mondo tragico del Novecento, dopo che nei lager e nei gulag, di nuovo, le vittime hanno potuto trasformarsi in carnefici, e i carnefici in vittime.

Però la poesia ci prova a dire l’indicibile, perché essa sa unire l’inunificabile. Dante, Goethe, Novalis, Leopardi, Montale: in essi "i lembi della contraddizione si respingono con la stessa forza con cui si attraggono."

Unisce l’inunificabile, e divide l’indivisibile anche, aggiungerei, la poesia: che cos’è se non questo l’enjambement, in cui la sintassi e la metrica sono irrimediabilmente sfasate? "Interminati /spazi"; "foglia/riarsa"; "mondo/riarso": di fronte alla frattura dove non la attenderebbe, il lettore legge e rilegge, privilegia talora la lettura sintattica, talaltra quella metrica, e ogni volta è condannato, per quanto si sforzi, a "inciampare", a sperimentare l’insoddisfazione, la perdita, la sconfitta. La verità, "der wahre Weg", appare inafferrabile, perché quelle parole sono insieme unite e divise.

Eppure la poesia ci sfida a ritentare, a "costruire" un significato seppure provvisorio, a scoprire il confine, il senso del limite.

E'forse "confine" la parola chiave di questo volume. "Esiste un ultimo confine oltre il quale non possiamo andare?"- si domanda il nostro autore. Le associazioni, le "intersezioni" (è questo il titolo, dopo "incroci", della rubrica filosofico-letteraria che Rella tiene su l’Unità) talvolta vengono chissà da dove, e quindi sono concettualmente inspiegabili, ma i "cittadini", e Rella si definisce "anche" politico, capiranno.

La domanda dunque mi fa tornare alla mente le elezioni politiche del ’92, quando la sinistra in Trentino, con spirito unitario ed entusiasta, candidò al Senato il professor Giuliano Pontara, pacifista assoluto, e chiamò quella lista "Senza Confini-Ohne Grenzen".

Fu una sconfitta bruciante, che punì quel nostro senso di onnipotenza, e i trentini, per soprammercato, inviarono Enzo Boso a Palazzo Madama. Falliscono le parole dell’onnipotenza in politica. E anche nell’eros: non è riuscita la poesia "More ferarum". Mentre illuminano e raschiano versi più umili come "nell’avara / vita greve gravata dall’arsura", e "arcano l’inaudito brusio del niente." Ci soccorrono di più l’avverbio "Forse", con il quale, sull’onda di Eugenio Montale, si conclude la raccolta poetica, e certo lessico ispido ispirato ai frammenti di Clemente Rebora.

E poi l’Ecclesiaste. Franco Rella definisce "qohèletica" la dimensione della sua opera. E’ questo il libro biblico che sfiora il nichilismo: "Tutto è come un soffio di vento: vanità, vanità, tutto è vanità." E Rella ripete che "il futuro è una mano / aperta e tesa verso il niente" e che "non c’è risposta alcuna / al senso dell’umana esistenza".

Nella Bibbia Dio si rivela, e si nasconde, contemporaneamente. Nel Qohèlet si occulta: per questo è il libro riscoperto nel Novecento, quando ci interroghiamo sulla tragedia della Shoah. In "Yossl Rakover si rivolge a Dio" un ebreo lituano, Zvi Kolitz, racconta la morte di un combattente nel ghetto di Varsavia, e chiede a Dio, con inaudita forza polemica: "Dove si trovano i confini della tua pazienza?"

Ancora i confini, ancora uno sguardo che sporge sull’altro, ancora una domanda su Dio. Sta la risposta in quel sapere "aurorale" dell’inizio, che non conosceva la divisione tra letteratura e filosofia, tra parola e musica, tra mezzi e fini? Quanto abbiamo pagato per gustare il frutto, nella modernità, della secolarizzazione che separa?

Sono interrogativi destinati a rimanere senza risposta se persino un filosofo della scienza, seppure eretico come Paul Feyerabend, scrive: "Noi non abbiamo mai una visione completa della realtà, perché ciò significherebbe aver portato a termine tutti i possibili esperimenti, vale a dire conoscere la storia del mondo prima che sia giunta alla fine."

E tuttavia non è dell’uomo rassegnarsi al nichilismo. Franco Rella scrive che "in fondo vale la pena di vivere e di soffrire anche terribilmente se si riesce a dare una qualche forma alla nostra esperienza del mondo".

Non è la verità, non è la certezza, è quella "qualche forma" in cui la bellezza smembrata può provvisoriamente costituirsi. "Mettendoci in gioco e trasformandoci", possiamo dare senso anche al vuoto qohèletico.

Chiuso il libro, il lettore si domanda, annichilito: "Ma quanti libri avrà letto questo filosofo roveretano?"

Essere dentro ed essere fuori, essere se stessi ed essere altri: io l’ho imparato innanzi tutto da Michail Bachtin.

Ecco: questo russo (mi pare) di non averlo visto citato, e respiro perciò sollevato.

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