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Se i colleghi ti affumicano

Una importante sentenza contro la prepotenza del fumo passivo.

Nei giorni scorsi il tribunale di Roma ha accolto con una clamorosa ordinanza il ricorso di un lavoratore che era costretto a lavorare in una stanza con colleghi fumatori.

Il sig. M. T., dipendente della E.S. s.p.a., è stato costretto a lavorare in una stanza con altri sette colleghi, accaniti fumatori, pur essendo affetto da faringo-laringo-tracheite cronica. M. T., temendo gravi danni per la sua salute, si era dunque rivolto al Tribunale di Roma, sezione lavoro, chiedendo al giudice di ordinare al datore di lavoro di collocarlo in ambiente di lavoro dove non fosse costretto a respirare il fumo passivo dei colleghi.

Il giudice unico non aveva accolto il suo ricorso, ma il suo avvocato ha ritenuto di dover proporre reclamo al Collegio. Nel giudizio innanzi al Collegio si è schierato al fianco del sig. M.T. anche il Codacons, che ormai da anni si batte contro il tabagismo.

E il tribunale di Roma, ribaltando l’ordinanza del giudice unico, ha deciso che i datori di lavoro devono tutelare pienamente la salute dei lavoratori anche dal rischio del fumo passivo, ed ha accolto la domanda del lavoratore. Il Collegio ha pertanto ritenuto - ci spiega Vincenzo Fasullo, direttore dell’ufficio legale del Codacons - che la diligenza del datore di lavoro dovuta nell’esecuzione degli obblighi di sicurezza non dev’essere quella media del buon imprenditore, ma deve andare oltre: deve tendere ad eliminare o ridurre al minimo qualsiasi rischio.

Nel caso in cui ci siano dei lavoratori che soffono di particolari problemi che possono degenerare a causa del fumo passivo,la soluzione, secondo il Tribunale, dev’essere quella di evitare che il lavoratore venga a contatto con la sostanza nociva. L’ordinanza ha infatti previsto che il sig. M. T. debba essere collocato in una stanza dove non ci siano altri colleghi fumatori.

Da questa ordinanza, che peraltro richiama una sentenza della Corte Costituzionale (n.399/96) in ordine allo stesso problema, restano pochi margini ai datori di lavoro. Infatti, tutti i datori di lavoro che non vietino di fumare nei luoghi di lavoro o che non predispongano aree apposite per soli fumatori, sono costrettti, come dice l’ordinanza, ad adottare "la più alta tecnologia possibile" in materia di areazione degli ambienti. Ovvero non sono sufficienti i vecchi impianti di areazione, laddove ce ne siano dei nuovi che consentano di ridurre il rischio ad una "soglia talmente bassa da fare ragionevolmente escludere che la salute dei lavoratori sia messa a repentaglio dal fumo passivo o da altri agenti o sostanze nocive" - per usare le parole della Corte Costituzionale.

I datori di lavoro che non intendono imporre il divieto di fumo o allestire sale per fumatori sono dunque costretti a investire ingenti capitali per rimodernare gli impianti di areazione che non siano della più alta tecnologia esistente. Questo però potrebbe non bastare. Infatti, per alcuni giudici, la soluzione è una sola: il divieto di fumo. Il Pretore di Siena ha ritenuto (sentenza n.292/97), a nostro modo di vedere correttamente, che non potendosi determinare allo stato delle conoscenze scientifiche un limite soglia (la scienza non è in grado di dirci se inalare X percentuale di fumo può provocare una faringite o un cancro ai polmoni e X meno 1 ci dà la certezza che invece non insorga alcuna patologia) che l’unico rimedio sicuramente efficace sia il divieto di fumo e che gli areatori (vecchi o nuovi che siano ) non eliminano il rischio, in quanto in ogni caso si sarebbe esposti a più o meno basse o alte percentuali di fumo passivo,che conta tra i suoi composti potentissime sostanze cancerogene.

Altro principio importante affermato dal Pretore di Siena in quella sentenza riguarda le spese per questi tipi di giudizio, ritenendo che esse debbano essere interamente addebitate al datore di lavoro; altrimenti si costituirebbe "un ostacolo fattuale all’iniziativa anche di un singolo lavoratore a tutela di un proprio e al tempo stesso altrui diritto fondamentale della persona".

Il lavoratore oggi dunque non deve temere nulla: se è costretto a subire il fumo passivo nel luogo di lavoro deve prima chiedere con lettera raccomandata al datore di lavoro che intervenga ad eliminare il problema, dandogli 30 giorni di tempo, dopo di che può rivolgersi al giudice del lavoro, anticipando all’avvocato, se richiesti, solo gli onorari, in quanto per instaurare processi in materia di lavoro non ci sono oneri di spesa.