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Marianne Werefkin

Presso il Palazzo Magnani di Reggio Emilia, fino al1° luglio, la prima grande mostra dedicata all’artista lituana.

"Tutti i miei sentimenti, tutte le mie impressioni sono tradotte in questa lingua di linee e colori così semplicemente come tutti fanno con il linguaggio. Il mio sentimento di base, la mia fede profonda hanno elaborato, grazie alle linee e ai colori, una forma di base simbolica... A proposito dei colori: delle grandi masse pesanti di tonalità ‘soffocata’ e in esse e al di fuori di esse delle macchie splendenti che seguono il movimento della linea...Tutte le forme della vita non hanno per me importanza se non quando coincidono perfettamente con il linguaggio dei colori e delle linee che mi sono necessarie."

Marianne Werefkin, "L'albero rosso" (1910).

Queste considerazioni estetiche dell’artista lituana Marianne Werefkin (1860-1938) accolgono il visitatore della splendida mostra che Reggio Emilia dedica a questa figura importantissima della cultura europea del ‘900, ma pressoché dimenticata dopo la sua morte ad Ascona (sembra non avere fine la riscoperta di artisti e protagonistidella miniera Novecento).

Una sensibilità acutissima, la sua. Figlia del comandante della fortezza di San Pietroburgo, la Werefkin, come gli aristocratici vicini allo zar, guardava all’Occidente e in particolare alla Francia. Frequentò lo studio del pittore realista Ilja Repin e lì conobbe Alexej Jawlensky che diventò per lunghi e tormentati anni suo compagno e grandissimo protagonista dell’Espressionismo. Nel1896 i due si trasferirono a Monaco, capitale artistica europea. Per fortuna alcuni importanti personaggi della cultura di allora descrivono in maniera limpida il ruolo ricoperto dalla Werefkin nella città bavarese, come nel caso di Gustav Pauli, direttore della Kunsthalle di Brema e poi di Amburgo, che così scrive: " Il salotto della Baronessa rappresentava il cuore di questo mondo... Qui ci si esauriva discutendo... o si progettavano manifestazioni... Non ho mai conosciuto un gruppo di persone così carico di tensioni".

Se poi si accettano le intuizioni di Clemens Weiler, uno dei primi studiosi della nostra, intorno agli schizzi che dal 1902 si susseguiranno con regolarità definiti "primi accenni di arte astatta", o all’incontro a Murnau con Kandinsky e le discussioni con la Werefkin sull’arte, si capisce quale grado di consapevolezza fu da lei raggiunto, soprattutto riguardo al ruolo sempre più centrale del filtro sul mondo operato dalla sensibilità individuale e dall’introspezione che con particolari lenti infondono vita a ciò che apparentemente è coperto di banalità. La realtà come "vuoto spaventoso" si trasfigura: "Artista è colui che oppone alla realtà delle cose percepite l’irreale della sua anima da artista, la sua malinconia, la sua gioia, il suo estro, la sua forza" (arte come sentimento che "risveglia la forma").

Una natura animata fa da sfondo alle sue ricerche: il mondo di fiaba della sua Vilnius, la caparbia ricerca senza fine di quelle piccole figure che si appressano una dietro l’altra, picchi di montagne che si piegano come fossero di cera, frante nelle sue coloratissime tempere, e poi teosofia, linguaggio dell’infanzia, magia, attesa del prodigio, i blu cobalto del lago Maggiore, l’incontro con i grandi dell’arte francese anche se al fondamento resta un’artista russa. Forti parallelismi corrono allora con i fantasmagorici mondi del Kotik Letaev dello srittore russo Andrej Belyj, della sua visionedella natura fatta di "gesti delle lunghe massicce linee di pietra... del selciato che digrigna fragoroso i solidi ciottoli bianchi e delira di rapidi rumori... nell’enormità di strade e stradine che portano in un vicolo cieco, contro la cieca parete universale"; e più avanti: "Istante, stanza, strada, processione, campagna, stagione, Russia, storia, mondo: questa è la scala delle mie dilatazioni".

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