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QT n. 10, 19 maggio 2001 Monitor

Dita incantatrici

La vincitrice del Busoni torna a Trento a interpretare il celebre Rach 3 di Rachmaninov.

A. Sommariva

In questi tempi cinici e disillusi, quando ormai i rapporti si vivono come il cibo da fast food, sorprende un poco constatare come i trentini si lascino irretire da uno sfaccettato e sfacciato sentimentalismo. Abbiamo visto un pubblico numeroso nella serata di lunedì 7 maggio al teatro Sociale, come due anni fa, quando l’Auditorium era stracolmo, in una serata il cui pezzo forte era rappresentato dallo stesso brano: il celebre Rach 3.

Anna Kravtchenko.

Anche l’interprete era la stessa, quella Anna Kravtchenko che nel ’92 conquistò il Busoni, privo di vincitori da ben cinque anni.

Tanto affetto viene ampiamente ricompensato quando l’orchestra intona il primo tema, la semplice melodia tradizionale russa che Rachmaninov aveva sfruttato per questo incipit, e Anna Kravtchenko offre graziosamente il proprio suono vivace, in cui abbonda l’uso di sincopato. La trama però si annacqua ben presto, ovvero all’inizio del secondo intervento da solista, ma poi torna ad essere vivace e scoppia in un frenetico sovrapporsi di note arabescate come le scene di lotta nel manicomio di "Qualcuno volò sul nido del cuculo".

L’orchestra segue bene, si nota quanto il taglio vagamente nevrotico sia probabilmente imposto dal direttore, perché gli scatti nervosi degli strumenti che già avevamo notato, con più evidenza, nelle parti della Kravtchenko, si allargano a tutti gli strumenti. Da solista, come tutti i virtuosi, la Kravtchenko sa dominare l’orchestra, cercando di raddoppiare ogni nota, ne risulta però un pastiche, che fastidiosamente dà l’impressione di essere utile nel non far notare le piccole imprecisioni.

Il ritmo tenuto nell’esecuzione fa pensare che si voglia mandare il pubblico a casa presto, secondo e terzo movimento vengono eseguiti di seguito e ne vengono un po’ danneggiati. Si inchina fino a toccare terra alla fine Anna Kravtchenko di fronte al pubblico di Trento, che la applaude lungamente, ma senza lanciare l’usuale "Brava", che difficilmente il timido pubblico riesce a farsi uscire dalla gola, ma la durata dell’applauso, quasi estenuante, convince comunque la pianista ad eseguire un bis. Un breve brano veloce che soddisfa tutti, perché nuovamente sottolinea l’agilità delle dita della Kravtchenko.

Passata l’arte incantatrice del divo pianoforte à la Rachmaninov, l’orchestra Haydn, lasciata a se stessa, non sparge scintille, né cade rovinosamente nella polvere eseguendo la Sinfonia n. 5 in do minore di Ludwig van Beethoven. Il direttore, Cristian Mandeal, ottiene il meglio dall’orchestra nel terzo movimento, affrontato con grande coesione, colorato e nitido come le immagini di "Sette anni in Tibet".

La Quinta in do minore op. 67 è lavoro del 1808; da molti punti di vista la si può considerare il culmine della produzione creativa di Beethoven. In essa molte tensioni di stampo filosofico, soprattutto la lezione kantiana, che agitavano e ispiravano l’animo del compositore, vengono accolte e riproposte in temi musicali suggestivi. Il primo movimento, Allegro con brio, ha inizio con un tema martellante, che introduce un vero e proprio discorso, in cui logica e rapida argomentazione appaiono evidenti. Il tesoro più prezioso dell’originalità inventiva di Beethoven, tuttavia, è contenuto nello Scherzo, unito al Finale glorioso senza soluzione di continuità, dove la melodia in continua ascesa dei bassi è subito seguita dal tema "del destino", poi conduce ad una quasi danza, ritorna alla prima melodia per andarsi a spegnere sugli incombenti colpi dei timpani.

Ad una settimana di distanza, mentre termino questo commento, quei colpi mi paiono quasi la premonizione di un cupo futuro...