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QT n. 1, 11 gennaio 2003 Monitor

“Era mio padre”; “Samsara”

Nel panorama dei film natalizi, ormai di consuetudine assai ristretto e misero, vista la pochezza di contenuti e stili, quasi ad incoraggiare nello spettatore, insieme alla pausa lavorativa, una sospensione pure dell’attività pensante e del gusto estetico, vale la pena rilevare la presenza sugli schermi di due film distintisi invece per il buon livello: uno, "Harry Potter e la camera dei segreti" di Chris Columbus, è la continuazione riuscita delle avventure e del percorso formativo del primo episodio, in una rinnovata lotta tra Bene e Male, con protagonista l’apprendista stregone Harry Potter, impegnato qui a preservare la sua scuola dalle oscure energie malefiche che la assediano, destreggiandosi tra cospirazioni ed enigmi, incantesimi e fantasmi redivivi, con effetti speciali e scenografie strabilianti, e un uso al meglio del linguaggio iconico.

L’altro, "Era mio padre" di Sam Mendes, è un film di grande intensità e forti sentimenti, che narra una storia dal tono epico, grandioso, cui si aggiungono risvolti intimi. Si tratta di un film di genere dall’impianto classico, un gangster movie ambientato nell’America della depressione, con al centro i membri di una famiglia irlandese, malavitosa (il vecchio padre-boss, guida di tutto il clan, il figlio adottivo-killer, suo figlio Michael di dieci anni, testimone, e unico superstite, di fatti cruenti nel segno dei canoni mafiosi, da lui narrati in flashback con voce fuori campo), innovato e arricchito da un punto di vista nuovo e originale, e da un uso personale dei canoni linguistici: un paesaggio non solo sfondo o elemento estetico, ma senso del vuoto e del freddo a ritmare la solitudine e la progressione epica della vicenda, ed esso stesso personaggio; e i suoi dettagli quali metafore di stati d’animo e momenti della vita, i giochi di luce, i chiaroscuri, l’acqua presente negli snodi essenziali, specie di morte, a significare la mutevolezza della vita e le cose cercate ed accostate ma dileguatesi, il freddo e il gelo simboli dell’impossibilità di calore umano e comunicazione; l’alternanza di dialoghi e silenzi più eloquenti delle parole; la violenza sentita e saputa più che vista, perché lasciata fuori inquadratura, e sostituita da contesti ed atmosfere.

E per quanto riguarda il contenuto, forte scorre il filo tematico dei rapporti tra padre e figlio, intricati, poco parlati ma molto sentiti, che coinvolgono tre generazioni, il vecchio, il figlio adottivo da lui amato e stimato (mentre amato ma non stimato è il figlio vero, irrazionale e crudele), e Michael, che intraprende il viaggio a ritroso nel tempo e nei fatti, per capire suo padre e il suo mondo.

Sotto la superficie del film si allineano così più livelli di lettura, dal più semplice, che si vede ed è la storia, la diffidenza, le eliminazioni feroci, la fuga verso la salvezza, a quelli più complessi: la violenza come norma ed esempio di comportamento, la spinta a credere in una possibile interruzione della catena malefica e nella redenzione dell’ultimo figlio, sfidando tremendi conflitti morali e fisici per riuscirci, e, più nascosta, la tensione ad entrare nella vita misteriosa dei padri e a svelarne segreti e motivazioni, di fatto un viaggio alla ricerca del padre, che è la parte più ardua e densa del film.

Si avrà poi l’occasione di rivedere al Cineforum il film "Samsara" di Pan Nalin, piacevole sorpresa dove senso estetico ed erotismo si accordano con rigorosi canoni narrativi e concezioni esistenzial-spirituali. E’ un film che intrattiene con la fragranza dei toni cromatici e delle forme: dei paesaggi suggestivi, di una natura varia e splendente, dei corpi e delle movenze delle persone, da cui traspare una fisicità veemente e l’autenticità di sentimento e sguardo, in una mescolanza, a volte naif a volte estetizzante, con timbri new-age, di tensioni ascetiche con passioni terrene. Ma la gradevolezza delle immagini, composte con un modo stilistico che, pur non scevro di lentezze e manierismi, sa rivestire di familiarità luoghi e usanze di un altrove lontano e pur noto, e di una storia d’amore che si snoda intensa, non sottrae alla riflessione su temi di fondo, comuni a tutte le culture. Essi sono riassumibili in simboli e in alcune enunciazioni, ribadite via via a voce o per iscritto, che costituiscono la linea tematico-narrativa, la parabola morale di un giovane monaco.

Egli, entrato bambino in monastero, conosce preghiera e purificazione, fino all’immobile concentrazione verso l’illuminazione ultima; giovane ventenne svegliato dalla trance durata tre anni, alle soglie di essere lama, sente però il forte richiamo della sensualità, che cresce di pari passo col conflitto tra rinuncia ascetica e desiderio, e, come Siddharta, comprende che per rinunciare alle esperienze e alle gioie fisiche, bisogna prima provarle e possederle.

Lascia quindi il convento per entrare nella pienezza del mondo, unendosi all‘affascinate Pema, con cui ha un figlio e un’invidiabile coesione fisica e sentimentale. Ma non sarà tutto facile, e il rovello, se sia più importante correre dietro a mille desideri o conquistarne uno solo, lo accompagna nello svolgimento della vita, che vive nlla sua totalità di bellezza, dolore, piaceri, turbamenti, e con finale problematico, contagiando anche lo spettatore, partecipe e coinvolto nelle emozioni msse in scena.

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