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QT n. 1, 11 gennaio 2003 Servizi

La difficile scuola dei piccoli stranieri

Nel 2001 gli alunni figli di immigrati che frequentavano la scuola trentina erano 3.069 (il 37% in più rispetto all’anno prima). Una ricerca commissionata dalla Provincia evidenzia le molte lacune della scuola in questo compito.

Sui giornali di fine novembre è comparsa una sintesi del rapporto annuale, relativo al 2001, sull’immigrazione in Trentino, predisposto dell’assessorato provinciale alle politiche sociali. Da esso risulta che gli stranieri residenti in provincia, alla fine di quell’anno, erano 16.834 (il 3.5% della popolazione complessiva), quasi tutti (92,9%) extracomunitari, in prevalenza originari dell’Europa centro orientale (52%) e quindi del Maghreb (25%). E ancora: nel 2001 i nati stranieri sono stati 373 (7.4% dei nati nel 2001), mentre nella scuola gli alunni figli di immigrati erano 3.069 (il 4.3% del totale), con un considerevole aumento (+37%) rispetto all’anno precedente.

A oltre dieci anni dall’emergere del fenomeno migratorio, questa crescente presenza nella scuola trentina richiedeva di essere analizzata, sia per verificare l’atteggiamento, le competenze e la pratica degli insegnanti messi di fronte ad un nuovo compito, sia per capire quali siano il grado di soddisfazione e le aspettative delle famiglie di quegli alunni. Nasce da queste esigenze la ricerca intitolata "Progetto scuola e alunni stranieri", coommissionata dall’Iprase e dalla Provincia allo Studio Res e coordinata da Nora Lonardi, ricerca che si è servita di un lungo questionario somministrato a 300 maestri e 200 insegnanti di scuola media operanti in tutti i comprensori della provincia (di questi 500 questionari ne sono stati compilati 323), e di interviste a famiglie straniere in merito all’esperienza scolastica dei figli.

La ricerca conferma anzitutto che quasi tutti gli insegnanti contattati hanno avuto a che fare con bambini stranieri e - dato forse inatteso - che oltre la metà dei docenti ha avuto fra i propri alunni dei bambini nati da matrimoni misti. Per affrontare questo nuovo compito e le relative difficoltà, le risorse maggiormente utilizzate sono indicate nel consiglio di classe e nell’esperienza di altri colleghi, dentro e fuori la scuola, mentre si ricorre raramente a centri istituzionali della Provincia, come l’Iprase o il Centro Millevoci (il centro di documentazione per l’educazione interculturale in funzione da 4 anni) o ad associazioni.

Un’altra lacuna la riscontriamo a proposito degli strumenti utilizzati: quelli privilegiati risultano essere il sostegno individualizzato e gli interventi di alfabetizzazione, mentre la figura del mediatore culturale compare solo all’ultimo posto, perché - notano gli autori della ricerca - egli viene percepito dagli insegnanti come "una figura ancora piuttosto circoscritta, centrata più su un ruolo di pronto soccorso linguistico interpretativo che non di progettazione e pianificazione degli interventi o di sostegno nel rapporto famiglia-scuola".

Il privilegiare certe risorse più tradizionali a scapito di altre più specifiche si spiega forse con la scarsa dimestichezza che il campione esaminato dimostra di avere con l’educazione interculturale. L’informazione relativa a questi temi - ammettono gli insegnanti - gli viene soprattutto dai mass media; e allora si comprende come mai il 43% di loro non risponda o dia spiegazioni generiche quando gli viene chiesto cosa sia l’educazione interculturale; mentre un altro 16.7% l’identifica con "un processo uniformante che annulla le differenze". Rimane un 40.5% che interpreta più correttamente l’intercultura come "confronto dialettico che implica un cambiamento, un adattamento reciproco, o, ancor meglio, come inclusione… che va oltre il contesto relazionale per rivelare una più generale disponibilità al cambiamento non come semplice adattamento, ma anche come crescita intellettuale".

Ma al di là della definizione, qual è l’atteggiamento dei docenti verso questo particolare rapporto che andrebbe istituito con gli alunni? Accanto ad un 47% di "disponibili", troviamo un 25% che la ricerca definisce "confusi": cioè insegnanti apparentemente aperti, che però appaiono preoccupati di un possibile effetto negativo sull’identità propria e degli alunni, e quindi "orientati a non considerare necessariamente l’educazione interculturale come parte integrante degli obiettivi educativi scolastici". E per finire, c’è un 28% di diffidenti. Percentuali, complessivamente non molto confortanti, tanto più se si considera che da questo campione rimangono esclusi quei 177 insegnanti che si sono rifiutati di compilare il questionario e che, verosimilmente, non sono molto interessati a queste tematiche.

La scuola trentina è abituata a inserire alunni stranieri? (sondaggio su un campione di insegnanti)

Un altro limite consiste poi nel fatto che la condivisione di questa pratica "tende ad essere ampia e diffusa soprattutto in relazione alle affermazioni più generali, i cui contenuti risultano piuttosto vaghi (cultura, pace, diritti, cooperazione, solidarietà), mentre scema gradualmente quando tali affermazioni sollevano concetti più forti (sviluppo democratico, cambiamento, identità), ossia implicano una dimensione di trasformazione/mutamento".

Infine, la pratica dell’educazione interculturale appare più presente nelle scuole elementari (52%) che nelle medie, nelle scuole di città che in quelle periferiche (valli e periferie cittadine) e soprattutto ad opera di insegnanti giovani.

Eeppure, gli insegnanti sembrano rendersi conto della
natura dei problemi che incontrano nel relazionarsi con gli alunni stranieri; le difficoltà più frequenti (che si presentano soprattutto con bambini di origine araba e/o di cultura musulmana) derivano infatti soprattutto dalle differenze religiose e culturali, considerate decisamente più determinanti di quelle linguistiche.

Scrive a questo proposito Nora Lonardi, coordinartice della ricerca: "Fra gli alunni stranieri, gli insegnanti tendono a percepire come più ‘difficili’, ‘problematici’, quelli la cui appartenenza familiare e culturale implica l’affermarsi di nuove prassi dentro la scuola e una revisione negli atteggiamenti mentali, come accade ad esempio nel caso delle famiglie di religione non cattolica, oppure… delle famiglie zingare. (…) Ciò non significa necessariamente che nella scuola avvengano delle discriminazioni, tuttavia può essere che le aspettative rivolte agli alunni come alle famiglie straniere siano comunque delle attese di uniformità, di adeguamento automatico a regole, metodi, contenuti, modelli. Al contrario, le famiglie e gli alunni stranieri dovrebbero poter vivere la propria appartenenza culturale, religiosa, linguistica, non come pesi, limiti da superare per diventare in fretta ‘come gli altri’…., bensì come un vissuto da confrontare in una prospettiva di cambiamento reciproco".

La conseguenza inevitabile di tutto ciò è che gli insegnanti stessi considerano la scuola poco (62%) o per niente (7%) preparata a questo incontro, con dati simili per elementari e medie. Ad un miglior funzionamento dell’istituzione si oppongono ostacoli di varia natura: organizzativi (57%, soprattutto alle elementari), di formazione dei docenti (56%), e di resistenze di tipo culturale (30%, soprattutto alle medie).

Spostiamo ora l’attenzione dagli insegnanti agli alunni
e ai loro genitori. Il rapporto figli-famiglia-scuola ha molte facce: le famiglie assicurano, nei confronti dei figli, il legame con le origini, ma proprio per questo "il loro percorso di inserimento nel nuovo ambiente sociale può evolversi più lentamente di quanto non avvenga per i figli… La scuola rappresenta un elemento trainante del processo di inserimento generale della famiglia immigrata, e nello stesso tempo potenzialmente disturbante, a volte di vera e propria rottura del rapporto figli-genitori". Spesso infatti avviene che il bambino "si trasforma in interprete e crede di divenire il responsabile della famiglia, che tuttavia non accetta facilmente questo suo nuovo ruolo, e il fossato si scava sempre più profondo fra di loro".

Quelle intervistate dai ricercatori possono essere considerate famiglie abbastanza tipiche: primo a venire in Italia è stato l’uomo, poi si è avuto il ricongiungimento con l’arrivo della moglie e dei figli, poi altri figli sono nati in Italia. Per un inserimento soddisfacente sono ovviamente importanti la qualifica professionale e gli strumenti di conoscenza della coppia; ma anche le origini. Si è visto, ad esempio, che trovare un alloggio è un’impresa molto più difficile per arabi e albanesi che non per immigrati di altre etnie. In ogni caso, i contatti con gli italiani, al di fuori dell’ambiente di lavoro, sono molto scarsi, e si tende a frequentare soprattutto i connazionali. Le famiglie preferiscono minimizzare le difficoltà incontrate, ma in un modo o nell’altro emerge che queste persone si sentono più tollerate che accolte.

Se i loro rapporti con la scuola sono sporadici o addirittura inesistenti (come lamentato da oltre metà degli insegnanti), non si tratta quindi di disinteresse: a questo risultato portano molte circostanze, dalle difficoltà linguistiche agli impedimenti dovuti ai tempi di lavoro dei genitori, alla mancanza di iniziative organizzate per coinvolgere queste persone. E infine viene avanzata un’ipotesi più complessiva: quel desiderio di "normalità", che tante ricerche hanno messo in evidenza come tratto caratteristico delle famiglie immigrate, le porta a delegare totalmente alla scuola il compito di educare i figli, nel timore che "la richiesta di un colloquio o di informazioni, in altri termini una presenza attiva… possa essere intesa come una sorta di interferenza indesiderata".

Probabilmente per gli stessi motivi, le richieste avanzate nei confronti della scuola sono poca cosa: soprattutto luoghi e spazi per lo studio della lingua d’origine, e cura dei figli fuori dall’orario scolastico. Parimenti, i genitori esitano a riportare problemi specifici vissuti dai figli in quanto stranieri. E quando viene fuori che essi non frequentano i loro compagni di scuola italiani, tendono a presentare la cosa come normale: "Io credo che qui ci siano abitudini diverse da quelle del mio Paese. Non credo sia un problema di discriminazione, qui non c’è proprio l’abitudine di invitare gli altri bambini in casa propria… Riescono a giocare assieme solo al parco giochi".

Salvo smentirsi subito dopo: "Forse con il tempo si risolveranno anche i problemi di socializzazione che hanno i nostri figli. Probabilmente qui la gente ha bisogno di tempo per conoscerci meglio; quando ciò sarà avvenuto, anche i nostri figli avranno degli amici. Io credo sia solo questione di tempo".

Insomma, conclude la ricerca, "nell’insieme le famiglie ‘si accontentano’ e non ritengono di aver richieste particolari da rivolgere alla scuola. Forse è anche per loro questione di tempo".

Le considerazioni conclusive della ricerca non sono molto incoraggianti: per quanto da tempo ormai si parli di educazione interculturale, nella pratica di ogni giorno gli obiettivi cui la scuola tende nel rapporto coi piccoli extracomunitari si limitano alla conoscenza dell’italiano e all’osservanza di certe regole di comportamento. Che non sono certo obiettivi da poco, ma estremamente difficili da conseguire con le risorse comunemente adottate.

Ad esempio: un ambiente accogliente che valorizzi la persona potrebbe agevolare l’apprendimento della lingua più ancora di un faticoso intervento specifico. Tanto è vero che spesso a imparare più in fretta l’italiano non sono tanto i bambini da più tempo residenti in Italia, ma quelli che hanno trovato un ambiente più sereno e stimolante. "Allora uno degli obiettivi primari dell’insegnamento diventa quello di ‘dare spazio’ al bambino immigrato e a ciò che egli porta con sé. Il che non implica ovviamente trascurare le regole, ma piuttosto che le regole si possono anche ‘aggiustare’, adeguare - esse sì - alle esigenze reali degli individui e alle trasformazioni sociali". Altrimenti "si va ineluttabilmente sulla strada dell’assimilazione e dell’omologazione", e non sempre, oltre tutto, con esiti positivi.

L’alunno straniero, insomma, non dovrebbe essere solo un soggetto al quale la scuola dà qualcosa, un grattacapo, un problema che richiede soluzioni, ma anche un’occasione (per l’insegnante e per i compagni) di ampliamento della propria identità e dei propri orizzonti.

In questa impostazione, un elemento importante è anche, naturalmente, l’emancipazione sociale e la partecipazione delle famiglie alla realtà locale, e pure qui la scuola potrebbe dare un contributo, "assumendo un ruolo di mediazione e stimolo, approntando, come già sta facendo, corsi di lingua italiana per adulti, ma anche finalizzati al mantenimento della lingua e della cultura di origine, così come corsi di ‘alfabetizzazione civica’"; fino ad occasioni ludiche (feste inteculturali) e creazione di "spazi da riservare alle famiglie: alle storie di vita, all’esplorazione di usanze, tradizioni, espressioni culturali e letterarie popolari, alla vita quotidiana nei paesi di origine, raccontate dai genitori e dai loro figli".