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A Teheran una nuova primavera?

L'Iran diviso fra speranze di riforma e autorità conservatrice. Da L’Altrapagina, mensile di Città di Castello.

Siavush Randjbar-Daemi

Le ultime settimane di giugno sono state movimentate da una serie di avvenimenti incentrati attorno all’Iran, un paese particolare in quell’area complessa che è il Medio Oriente. Unico paese medio-orientale a essere governato da una classe politica direttamente legata al clero nazionale, l’Iran si differenzia dagli altri paesi dell’area per una serie di circostanze. Diversamente da quasi tutti i paesi limitrofi, l’Iran ha un regime politico che non è frutto di qualche sanguinoso colpo di stato, di un colpo di mano militare o di decisioni geopolitiche delle cancellerie occidentali, ma di un vasto movimento popolare che nel 1979 ebbe la meglio su una monarchia modernista ma debole, lacerata dalla corruzione e da un protratto vassallaggio economico e politico, alle potenze occidentali, prima fra tutte gli Stati Uniti, e accolse a furor di popolo l’ascesa dell’ayatollah Khomeini a guida spirituale della nascente repubblica islamica.

Lo Shah Mohammad Reza Pahlavi.

A differenza del 1953, quando lo Shah (poi deposto nel 1979) Mohammad Reza Pahlavi fu reintrodotto sul trono del Pavone dai servizi segreti britannici e americani, che riuscirono a debellare col denaro il pur popolare movimento nazionalista incentrato attorno alla figura di Mohammad Mosaddeq, il primo ministro che spezzò l’oligopolio occidentale sull’estrazione petrolifera iraniana decretandone la nazionalizzazione.

Questa volta era evidente a tutti l’impopolarità del sistema monarchico e l’inoppugnabile successo del vegliardo ayatollah Khomeini, il quale dall’esilio parigino esortò a lungo i fedeli iraniani a ribellarsi contro un sistema che aveva concesso troppo agli americani e aveva creato un vasto solco tra le classi medio-alte, che riuscirono a beneficiare della spinta modernista dello Shah, e quelle meno abbienti che invece si dovettero adeguare al ruolo di miseri comprimari. I proventi del boom rimanevano all’interno della piccola cerchia dell’alta borghesia, spesso più vicina culturalmente ai paesi occidentali che al proprio.

L'aytollah Khomeini.

Il ritorno in patria di Khomeini, avvenuto nel febbraio 1979, calò il sipario definitivamente sull’esperienza monarchica iraniana (durata oltre 2.500 anni), e allo stesso tempo incoraggiò una moltitudine di movimenti antimonarchici, in precedenza oppressi, ad avanzare le loro aspirazioni. Tra i movimenti più consistenti, oltre a quelli legati alla figura di Khomeini, vi erano i comunisti, sotto l’ala maggioritaria del filosovietico partito Tudeh (che da lì a poco ricevette l’ordine tassativo da Mosca di appostarsi su una linea filo-khomeinista), e il movimento dei Mujaheddin-e Khalq (Mko), o "Guerrieri Santi del Popolo".

L’Mko aveva, nei piani dei suoi fondatori, il compito di creare una sintesi tra marxismo e islam, attingendo da ciascuna ideologia le parti valide per una teoria socialisticheggiante ma allo stesso tempo osservante dei valori cardine dell’islamismo sciita, che a differenza del sunnismo predominante nel mondo islamico vanta una maggiore impronta sociale. L’Mko era allora diretto da un ambizioso e spietato leader, Massoud Rajavi, che nella prima metà del 1980, dopo ripetute elezioni in cui il suo partito era uscito sconfitto a opera dei movimenti strettamente legati a Khomeini, annunciò il passaggio alla lotta armata. Ma gradualmente perse la larga base popolare che aveva in Iran, e dopo la fuga in esilio dei suoi vertici, tra cui lo stesso Rajavi, e la cattura dei leader militari che si erano resi protagonisti di una lunga stagione di assassini politici, si eclissò rapidamente dal panorama interno iraniano. Il primo governo insediato sotto l’egida di Khomeini fu presieduto da un vecchio discepolo di Mosaddeq, Mehdi Bazargan, leader del Fronte Nazionale, un partito d’ispirazione nazionalista moderata. Bazargan e i suoi ministri progressisti ricevettero l’incarico di riscrivere la Costituzione iraniana, in cui confluirono alcune delle idee chiave dei sistemi democratici, come la distinzione tra potere politico e potere giudiziario, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica a suffragio universale allargato (in Iran si comincia a votare a partire dai 15 anni anni di età), oppure l’elezione diretta dei consigli comunali fino al livello dei piccoli villaggi, cosa di fatto mai accaduta nella storia iraniana.

Mentre il governo Bazargan si accingeva ad assicurare il mondo della impronta pluralista della rivoluzione islamica, l’ala più radicale del movimento stava pianificando la scalata al potere, mediante una serie di mosse volte a conquistarsi il consenso dell’anziano Khomeini, che ancora oscillava tra l’accettazione di un regime moderato voluto da Bazargan e dagli esponenti della destra moderata e l’instaurazione di un sistema teocratico caldeggiato dagli studenti dei seminari islamici, le madresseh. La prima mossa dei radicali fu la creazione di tribunali rivoluzionari, privi di legittimazione politica o giudiziaria, che si presero cura di imporre sentenze pesanti sui più diretti collaboratori dello Shah e dei suoi alti apparati militari.

Nel 1980, durante un corteo organizzato da studenti radicali vicino al clero oltranzista, venne presa d’assalto e occupata l’ambasciata statunitense, allora nel mezzo della difficile trattativa volta a garantire il riconoscimento della rivoluzione islamica da parte di Washington. Non appena all’iniziativa degli studenti giunse la benedizione di Khomeini, il governo Bazargan entrò in crisi e si sciolse, spianando la strada a un gabinetto dominato dai seguaci stretti dell’ottuagenario ayatollah.

La guerra Iran-Irak.

Questo avvenimento radicalizzò la rivoluzione islamica, portò alla rottura definitiva con gli Stati Uniti e segnò l’inizio di un lungo periodo di isolamento internazionale del paese. L’invasione irachena dell’Iran, del settembre 1980, ufficialmente avvenuta a causa della rottura della trattativa sulla delimitazione territoriale dello Shatt al Arab (lo stretto che collega l’Iraq al Golfo Persico), in realtà non era che il tentativo di sfruttare l’apparente caos interno sorto in Iran per appropriarsi delle raffinerie iraniane in prossimità della frontiera con l’Iraq. La guerra con l’Iraq favorì i rivoluzionari, che poterono consolidare il loro potere in nome dell’identità nazionale e della necessità di difendere la patria dall’aggressore iracheno.

Saddam Hussein però godeva di un crescente sostegno internazionale, man mano che la guerra si protraeva. Al supporto incondizionato di tutti i paesi arabi, tranne la Siria, si aggiunse presto quello dei maggiori paesi occidentali come Francia, Germania e Stati Uniti. Gli orrori del conflitto e la volontà occidentale di prolungarlo per ragioni economiche spinsero il sistema politico iraniano, dominato da esponenti del clero conservatore e a tratti xenofobo, verso una linea di crescente isolamento.

Il lungo conflitto con l’Iraq terminò nel 1988, quando entrambe le parti erano ormai allo stremo e in Iran prevalse la linea pragmatica guidata da Rafsanjani, un membro intermedio del clero che da lì a poco sarebbe diventato presidente.

Il presidente Rafsanjani.

La linea di Rafsanjani era improntata a una cauta politica di riavvicinamento all’Europa, dettata per lo più da motivazioni economiche. I due turni di presidenza di Rafsanjani segnarono il passaggio dalla fase radicale della rivoluzione islamica a una più pragmatica. Sebbene l’Iran abbia sempre avuto delle leggi sociali meno restrittive di altri paesi limitrofi formalmente più liberali, l’assenza di un "uomo forte" o di un sistema monopartitico infiammò la discussione sulla necessità di tornare a uno dei punti cardine delle teoria rivoluzionaria: lo stato pluralista all’interno di un sistema islamico. Dai centri accademici, il dibattito si estese alla popolazione, dove trovò eco nella potente borghesia mercantile, spesso fulcro di significativi cambiamenti politici.

Mohammad Khatami.

Nel 1997, un vasto ed eterogeneo movimento riformista mette a segno un gran colpo con l’elezione a presidente del religioso riformatore Mohammad Khatami. Il neopresidente, eletto con il 70% dei consensi in una elezione con una affluenza dell’80%, è un filosofo formatosi sulle idee liberali di De Tocqueville e Thomas Jefferson, e rappresenta quel vasto movimento che crede nello Stato di diritto. L’establishment iraniano, però, è in mano a istituzioni prive di consenso popolare che controllano gran parte dell’economia e del potere politico. Dietro a nomi caritatevoli, come la Fondazione degli Spossessati o la Lega dei Veterani di Guerra, si nascondevano forti interessi della vecchia nomenklatura radicale, ora attestatasi su posizioni conservatrici e indirettamente legata al leader supremo (carica non elettiva ma che gode di vasti poteri), l’ayatollah Ali Khamenei, una figura discussa anche sul piano dell’autorità religiosa.

L’ayatollah Ali Khamenei.

Nei primi due anni della presidenza Khatami si assistette a una forte crescita della stampa politica. Il ministro della Cultura, Ataollah Mohadjerani, promuove la pubblicazione di numerosi periodici legati al movimento riformatore vicino a Khatami e diretto da suo fratello e da esponenti del clero moderato. Ma nel 1999 la cosiddetta "Primavera di Teheran" subisce una battuta d’arresto con la messa al bando, da parte dell’autorità giudiziaria (fermamente in mano ai conservatori) del quotidiano riformista Salam, diretto da Mousavi Khoeiniha, uno degli artefici della occupazione dell’ambasciata americana del 1980 e ora attestato su posizioni riformatrici e apertamente ostili ai conservatori di Khamenei.

Tale mossa provocò l’immediata reazione degli studenti universitari, che dettero vita alle più grandi manifestazioni di dissenso nella storia della repubblica islamica. Nonostante gli studenti non riuscissero a ottenere il sostegno diretto di Khatami, cinto d’assedio dai conservatori che minacciarono apertamente il colpo di stato, la protesta ebbe grande eco nella popolazione e segnò in maniera drammatica l’insoddisfazione di una notevole porzione degli iraniani nei confronti della rigidità delle leggi sociali e il tentativo, da parte dei conservatori, di preservare i loro vantaggiosi privilegi.

Gli avvenimenti dell’estate del 1999 provocarono un
forte inasprimento del confronto politico in Iran. La linea riformista del presidente Khatami raccolse larghi consensi in patria e deciso sostegno all’estero, però la perdita da parte dei conservatori della maggioranza parlamentare a opera dei riformisti provocò l’inasprimento della magistratura nei confronti della stampa, che venne drasticamente regolamentata. Khatami stesso denunciò i soprusi dei conservatori, che oramai violavano apertamente la stessa costituzione della repubblica islamica. Alla fine del suo primo mandato, nel 2001, Khatami si ritrovò davanti ad un bivio: da un lato, la scontata rielezione, dall’altra la possibilità di lanciare una sfida all’establishment mediante il rifiuto suo e di altri esponenti del movimento riformatore a candidarsi alla carica presidenziale. La scelta effettuata da Khatami di ripresentarsi e quindi di stravincere ancora una volta le elezioni venne vista da molti come una ritirata su posizioni pragmatiche. Intanto la diffusa disponibilità di tecnologie con le quali interfacciarsi con il mondo (in primis Internet e le bandite parabole satellitari) rinvigorirono il dibattito: i giornalisti riformisti man mano messi fuori legge si ritrovarono su Internet. A guidare i vivaci dibattiti dei circoli riformisti vi erano, per una ironia della sorte tutta iraniana, quegli stessi animatori della svolta radicale, gli ex studenti protagonisti della presa dell’Ambasciata americana, che spesso dovettero pagare con lunghe pene detentive il loro attaccamento alla causa riformista.

La recente ondata di dimostrazioni sono il corollario
di quanto descritto in questo articolo. Gli studenti universitari in tutto l’Iran, frustrati dal regredire delle libertà sociali, hanno manifestato il loro disappunto con una serie di cortei la cui motivazione ha ben presto scavalcato l’intento originario di lottare contro il carovita e l’inflazione alle stelle. Le manifestazioni hanno assunto il contorno di una contestazione diretta a Khamenei e alle alte cariche non elettive dello Stato che avevano fatto di Khatami e dei suoi, pur sempre popolari riformisti, degli ostaggi. C’è stato un notevole tentativo di strumenttalizzazione da parte di gruppi monarchici in esilio, ma testimonianze dirette riferiscono che la dichiarazione di sostegno di Bush è stata respinta, e il presidente americano è stato inserito nella lista delle personalità contestate.

Sebbene la gioventù iraniana sia largamente occidentalizzata, tale preferenze di usi e costumi non si traduce in una preferenza politica, vista la forte diffidenza nei confronti della superpotenza che ha pesantemente bombardato due paesi confinanti, come l’Afghanistan e l’Iraq e tentato una penetrazione economico-politica all’interno dell’Iran stesso. A differenza del 1999, quando a sedare le manifestazioni studentesche vi fu lo sforzo congiunto della polizia e dei miliziani delle Fondazioni vicine all’ala conservatrice, questa volta la polizia si è attestata su una linea più neutrale e ha arrestato uno dei leader dei miliziani estremisti, il latitante Saeed Asghar, che aveva attentato alla vita di uno dei più importanti ideologi del movimento riformista, Saeed Hajjarian, anche lui ex studente radicale. Tale atteggiamento della polizia ha mitigato ma non bloccato l’ondata di arresti, su cui si sta facendo luce solamente grazie alla ferma azione di alcuni deputati riformisti, che hanno fatto ricorso a numerosi sit-in e ad altre clamorose forme di protesta per costringere l’autorità giudiziaria a una maggiore trasparenza sulle sorti degli studenti imprigionati.

In concomitanza con le manifestazioni di Teheran, vi è stata l’improvvisa azione delle autorità francesi sui Mujaheddin del Popolo, che dopo la fuga dall’Iran dei loro leader, si stabilirono prima in Francia e successivamente in Iraq, dove Massoud Rajavi potè approfittare della guerra in corso per ottenere ingenti finanziamenti da parte del regime di Saddam Hussein. Armato dal regime Baathista, l’esercito di liberazione nazionale (Eln, braccio armato dell’Mko) sferrò una serie di attacchi in terra iraniana che gli alienarono del tutto le simpatie dell’opinione pubblica interna. Alla fine della guerra con l’Iran l’Eln fu inserito all’interno dei quadri dell’esercito iracheno, e ebbe (a detta di fuoriusciti dall’Mko stesso riparatisi in Europa e di documenti recentemente emersi dalle rovine di vari ministeri a Baghdad) un ruolo decisivo nelle operazioni di pulizia etnica perpetrate ai danni della popolazione kurda dell’Iraq settentrionale, compreso il massacro di Halabja del 1988. Quale che sia il loro seguito al di fuori dell’Iran, l’Mko e i suoi leader rimangono tra i più odiati movimenti politici iraniani, a causa della loro recente storia fatta di terrorismo e connivenza con il nemico di sempre, quel Saddam Hussein la cui scomparsa ha indotto alcuni esponenti anti-iraniani del Congresso americano a suggerire un sostegno aperto all’Mko in qualità di opposizione legittima al regime islamico.

La fine delle dimostrazioni ha permesso di tracciare un bilancio del complesso bandolo della matassa politica iraniana. A differenza degli altri paesi mediorientali, la presenza di una società civile interna evoluta al punto di formulare la propria via alla riforma e alla democratizzazione ha diminuito quasi del tutto la necessità di un intervento esterno, ideologico o militare che esso sia. Risale a poco tempo fa la dichiarazione di Colin Powell, secondo la quale gli Stati Uniti si asterranno dall’intervenire nelle "beghe di famiglia" iraniane, ribadendo (assai sorprendentemente) che l’Iran è una democrazia e che il Presidente Khatami è stato "legittimamente eletto". Allo stesso tempo, l’assenza di una tangibile influenza delle forze d’opposizione all’estero (Mko, i monarchici e le varie fazione comuniste) sulle scelte dei dimostranti in Iran ha segnalato l’ancora ampia popolarità del movimento riformista nel suo complesso.

Il movimento riformatore però è di fronte a decisioni importanti. Il legame tra gli studenti, fulcro in passato di quasi tutti gli avvenimenti che hanno modificato il corso della rivoluzione, e il movimento riformista stesso si sta indebolendo a causa della ripetuta riluttanza da parte dei riformisti stessi a scegliere una piattaforma comune con gli studenti. I giovani e la borghesia, che spalleggiarono decisivamente Khatami nel 1997, sono ora assai critici sul suo esecutivo, e osservano con disappunto il suo palese fallimento nel portare a termine le riforme promesse. Il movimento riformista, inoltre, è lacerato da divisioni interne fra chi è disposto a rischiare il collasso delle istituzioni islamiche pur di vedere diminuiti o annullati i privilegi dei conservatori, e coloro i quali credono ancora in un approccio pragmatico alle riforme. Il rinnovo del Parlamento e le elezioni presidenziali del 2004 saranno la cartina di tornasole della stagione delle riforme in Iran. E sanciranno i verdetti decisivi sulla trasformazione della repubblica islamica in uno stato di diritto, come reclamato dal movimento riformatore, o sul mantenimento dello status quo, con un’ala conservatrice che detiene il potere esclusivo.

Nel frattempo, si ha l’impressione che i recenti moti studenteschi nella capitale siano l’inizio di una nuova "Primavera di Teheran".